gran-torino

Meno pretenzioso ma artisticamente ben riuscito: l’ultimo capitolo della saga Eastwood segna un ritorno del regista a quei ruoli da duro che gli eran valsi notorietà e apprezzamento negli anni ’60, così come ad una rivisitazione moderna e forse un tantino tramontata del Thomas Gunny Highway di Heartbreak Ridge, vestendo ancora una volta i panni di un’ex-medaglia d’onore americana.

E, prendendo coraggio dagl’ultimi prodotti indipendenti di stampo «bollywoodiano» quali l’ultra-acclamato Slumdog Millionaire, il settantottenne californiano coinvolge nel cast una serie di giovani nomi asiatici qui alle prime esperienze, nonché un piccolo ma simpatico ruolo-cameo per John Carroll Lynch ed un funzionale Christopher Carley (evidentemente affezionato al genere economico grazie a Garden State).

Walt Kowalski è un padre di famiglia distaccato e molto, molto arrabbiato; quando dopo la perdita della moglie si ritrova a fare i conti con due figli che non ha mai veramente conosciuto sino in fondo, ed uno di questi propone lui di trasferirsi in una casa di cura, l’uomo diviene ancora più arrabbiato. Ma a salvare l’effettivamente ricercata solitudine di Walt è la brusca intrusione di Thao nella sua vita, il giovanissimo ed imbranato «muso giallo» vicino di casa, che prova a rubar lui una preziosa auto d’epoca: la vecchia Ford Gran Torino del ’72, che avrebbe garantito al ragazzo la riuscita dell’iniziazione alla gang di teppisti del cugino Spider.

Armato di fucile e perseguitato da padre Janovich – il quale ha promesso alla signora Kowalski che Walt si sarebbe regolarmente confessato in Chiesa – l’ex-marine è sempre più determinato a non aver a che fare con i suoi vicini asiatici, benché la madre di Thao lo costringa – pena il rimorso di una grave ingiuria – ad accettare il piccolo ladro in casa per qualche lavoro extra, di modo che possa ripagare l’uomo del fastidio creato. Ed è proprio così che, con inaspettata puntualità, l’insignificante periferia urbana americana di Walt diviene scenario accattivante di resoconti tra bande multi-razziali, stimolante zona conflittuale ove riscattare quel passato pieno d’orrore d’un reduce della guerra di Corea.

Fotografia sintetica ed irrilevante rispetto al precedente Changeling, vince la sceneggiatura di Nick Schenk, che nonostante tutto sembra al contrario esser firmata dallo stesso regista, in piena forma se ci riferiamo alla quantità/qualità d’insulti che riescon a scorrere tra una battuta e l’altra del suo personaggio. Buone le interpretazioni dei due ragazzi asiatici principali, senz’alcun dubbio più che adatte a soddisfare le comuni aspettative. Il film ha già riscosso un notevole successo al Sundance Film Festival.

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