Il falsario

Il film dell’anno sulla Shoah (ogni annata che si rispetti ne ha uno, non si scappa!) questa volta ha il pregio di non scadere nel patetico della commemorazione e di incentrarsi sulla singolare (e quasi inedita al cinema) questione morale che attanagliava tanto le vittime quanto i carnefici, schiavi delle contraddizioni create ad arte da un sistema delirante. Tanto è bastato tuttavia a Il falsario per guadagnarsi la candidatura ai prossimi Oscar come miglior film straniero.

Certamente una visione gradevole e di sicuro spessore quella che ci offre il regista austriaco Stefan Ruzowitzky, che tuttavia non primeggia lo stesso per particolare originalità e innovazione, in un genere battuto e spremuto fino all’osso. Ruzowitzky dirige con stile tradizionale, a tratti cedendo il passo a qualche accelerazione che rivela notevoli debiti dal Dogma style (vedasi le improvvise zoomate sui volti dei protagonisti e i repentini stacchi di montaggio): elementi che quasi spiazzano, virtuosismi che si apprezzano solo a narrazione inoltrata.

Narrazione, appunto, che si rifà ad un fatto realmente accaduto. Il riferimento è all’Operazione Bernhard, istituita nel 1945 all’interno del campo di concentramento di Sachsausen: obiettivo era mettere al lavoro un gruppo di ebrei detenuti con alle spalle esperienza nel campo della tipografia e della falsificazione del denaro, al fine di far creare loro sterline e dollari perfettamente contraffatti, da immettere nell’economia mondiale, per far crollare i sistemi economici inglesi e americani. Nel film, Karl Markovics interpreta Salomon Sorowitsch, uno dei più grossi falsari del tempo, messo a capo di quell’operazione dopo mesi di detenzione nel campo di concentramento.

All’interno delle baracche emergono tutti i conflitti morali di gente costretta per sopravvivere a tenere in vita la guerra e a finanziare lo stesso sistema che li schiavizza. Coscienti di essere ingranaggi importanti del meccanismo che vogliono sabotare, sono costretti a scegliere fra salvare milioni di vite o preservare la propria: emblematica in questo senso la figura di Burger (August Diehl), ancora disposto a morire per un ideale e quindi non ancora completamente annichilito dal sistema spersonalizzante. Di fronte a loro emergono, con sempre più forza e alla stessa maniera, le contraddizioni ridicole degli ufficiali tedeschi, costretti anch’essi a fingere odio verso gente che garantiva in realtà il prosieguo della guerra e quindi il loro sostentamento.

I meccanismi su cui si basa il film di Ruzowitzky sono in realtà semplici e perfettamente oliati. Una sceneggiatura concisa, asciutta e discretamente ritmata contribuisce a renderli tali, indulgendo talvolta nel sentimento, commuovendo senza esagerare (splendida in tal senso la scena dell’uscita dal campo, delicata e poetica, ma mai pietosa) e unendo così alla serietà e alla drammaticità del soggetto, persino qualche lievissima sferzata di umorismo, che concorre a rendere Il falsario un’opera straordinariamente equilibrata e certamente consigliabile a tutti.

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