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Non è sorprendente che il vero nome di Joe Strummer, autentica icona del punk-rock, era…. John Graham Mellor? Figlio di un diplomatico di Sua Maestà, abituato agli agi che il rango del padre consentiva, iscritto – insieme al fratello David – ad uno dei più prestigiosi college di Londra, il futuro leader dei Clash mostrava sin da ragazzo di possedere una fortissima personalità, che lo portava ad affermarsi come piccolo boss tra i suoi compagni di studi e ad avere le idee molto chiare su cosa fare da grande: l’arte, in tutte le sue dimensioni.

Quasi per contrasto, il fratello minore inizia a dare segni di squilibrio, dichiarando di ammirare il nazismo, con tanto di stendardi dalla croce uncinata e Mein Kampf come livre de chevet.
Un giorno, David si imbottisce di psicofarmaci e raggiunge in barca, solitario e depresso, un isolotto in mezzo ad un lago. Toccherà a Joe identificare il cadavere.
Dopo il trauma della morte del fratello, a 19 anni Joe – anzi, John Graham – frequenta la Central School of Art and Design, con l’intento di dedicarsi al fumetto. Da qui parte un percorso di ricerca personale e artistica, caratterizzato dalla determinazione di Strummer a seguire la musa dell’ispirazione, mirando a fare – come ogni maudit che si rispetti – della propria stessa vita un’opera d’arte.

Infatti, il nostro “rock and roll hero” si getta senza risparmio nella mischia dei ruggenti anni ’60, diventando prima un hippy e poi uno squatter: il movimento di occupazione delle case sfitte liberava a Londra, nei primi anni Settanta, la rabbiosa energia dei protagonisti della contestazione inglese che, a differenza di quanto accadeva nell’Europa continentale, assumeva una dimensione politica più individuale che di classe (come si diceva allora).
E questa dimensione è senz’altro quella maggiormente congeniale al Nostro che imbraccia la chitarra e inizia a formare le sue band, prima i Vultures, poi i 101ers (dal numero civico di uno degli stabili occupati).

Eppure Joe, che nel 1975 assume il nome d’arte definitivo (Strummer, “strimpellatore”), è irrequieto, mai soddisfatto fino in fondo: nel film, una delle sue testimonianze più brillanti riguarda il Sessantotto e tutto ciò che quell’anno ha significato per le generazioni successive di giovani arrabbiati: “Sembrava di essere arrivati su un campo di battaglia 12 ore dopo che la battaglia era finita….”.
Insomma, non era mai abbastanza per lui, ex rampollo di una famiglia-bene ma ribelle per costituzione: l’approdo nei Clash, un gruppo formatosi sotto l’egida del produttore Bernie Rhodes, personaggio geniale ma spigoloso, rappresenta l’esplosione, il raggiungimento – a 25 anni – dell’obiettivo di avere finalmente un palcoscenico adeguato su cui sprigionare le energie vitali che possedeva.

Per “arrivare”, Strummer deve fare scelte difficili, talvolta sgradevoli per uno come lui cresciuto sulla strada (girovaga per l’Inghilterra evitando le comodità familiari), dove ha imparato a riconoscere gli amici: in una prima fase, lascia entrare i fan nel camerino, suona ai concerti di Rock Against Racism e difende il pubblico che, solo perché “pogava”, viene picchiato dal servizio d’ordine di un suo concerto.
Poi rischia di essere travolto dal successo, e per salvarsi arriva a liquidare musicisti ritenuti non più all’altezza semplicemente offrendo loro una birra al pub, mentre gli eccessi spezzano la carriera del bravissimo batterista Topper Headon. Infine, giunge alla consacrazione definitiva dopo una trionfale tournèe in America (che pure sbeffeggia con il pezzo I’m so bored with the USA) e, con Rock the Casbah, sbanca il mercato discografico.

Inevitabile, a quel punto, il declino della parabola strummeriana: piano piano, i Clash vanno in pezzi e, alla fine, si sciolgono. Segue un periodo di triste ripiegamento su sé stesso, che vede Joe allontanarsi dalle scene, mettere su famiglia, fare un po’ di cinema… fino alla rinascita con il gruppo The Mescaleros, in cui riversa la mai sopita passione per una musica specchio dei tempi: è quindi un sound meticcio, sporco, bellissimo (in un disco uscito postumo, c’è una struggente versione di Redemption Song di Bob Marley, costante fonte di ispirazione sin dai tempi dei Clash).

Joe Strummer muore, all’improvviso, all’età di 52 anni, un 22 dicembre, appena dopo aver inviato ad amici e parenti un bellissimo cartoncino di auguri disegnato personalmente. Lascia un vuoto artistico e anche umano difficile da colmare, soprattutto dopo il rinnovato entusiasmo del suo ritorno alla musica.
Tutto questo è raccontato nel docu-film che Julien Temple ha girato come tributo ad un grande artista nonché suo amico, con l’appassionata partecipazione di amici personali di Strummer e di altri artisti: Bono Vox, Jim Jarmusch (che lo diresse in Mistery Train), Matt Dillon, John Cusack, Steve Buscemi, perfino Johnny Depp, tutti raccolti intorno a quei falò che Joe aveva lanciato come circoli di creatività e di condivisione di emozioni, dopo il brutto periodo seguito allo scioglimento dei Clash.

Temple ha utilizzato notevoli materiali di repertorio, alcuni appartenenti all’archivio privato di Strummer, altri della BBC; intriganti gli inserti animati, realizzati a partire da disegni, schizzi e fumetti di Joe, che conferiscono all’insieme un delizioso tocco pop-art.
La pellicola arriva sui nostri schermi già onusta di gloria, avendo partecipato a diversi festival, in particolare il Sundance (dove riceve la nomination per il Gran Premio della Giuria), il British Indipendent Film Award (dove vince come miglior film) e, ma guarda un po’, il Torino Film Fest 2007.

 

 

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1 Comment

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  1. 1
    Renato

    Sono stato un grande fan dei Clash in gioventù. Spero di riuscire a vedere questo film. Non posso dimenticare quando vidi i Clash all’Eur tanti anni fa!!

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