“Gli anni ’80 in Puglia sono gli anni delle pistole, dell’arrivo dell’eroina e dei lutti, ma anche gli anni dell’assalto al territorio, delle tangenti, dei flussi di denaro pubblici intercettati chissà da chi e chissà in che modo, della totale assenza di qualsiasi senso di comunità, anni che hanno lacerato e bruciato vite in una periferia infinita, dove la coesione sociale era già morta da troppo tempo. Anni che hanno visto troppi giovani nell’attesa di una trasformazione sociale che sarebbe arrivata troppo in fretta e senza alcun controllo, pezzi di generazione in cerca di una dose di eroina, una dose di anestetico sociale che consumava il tempo, l’energia vitale”.
Quello che Fine pena mai porta sugli schermi è un dramma che – come accade similmente nel recente Non è un paese per vecchi – per certi versi vede protagonista l’ambiente: un ambiente talmente tarato, talmente viziato dalla storia e dal costume, da permettere ad un uomo di arrivare a scontare 49 anni di carcere (14 dei quali in regime di 41bis) per le azioni commesse. Quell’uomo risponde al nome di Antonio Perrone ed è interpretato da un grande Claudio Santamaria, perfettamente in parte.
Per chi non sapesse di cosa si scrive, eccone la descrizione ad opera dei brillanti giovani registi (due dei quattro esponenti della Fluid Video Crew), Lorenzo Conte e Davide Barletti: “Rappresenta il punto più profondo dell’inferno carcerario, il punto di non ritorno alla realtà. Un girone dove si può fare un solo colloquio al mese e solo con i parenti di primo grado, attraverso un vetro divisorio. Un sistema detentivo dove la posta è censurata, la lettura di libri è limitata, dove l’ora d’aria è realmente una sola al giorno e si svolge in cubicoli chiusi da una rete antielicottero. Un regime che non prevede la partecipazione del detenuto a nessuna attività culturale o di lavoro manuale”.
E’ questa morte in vita che Santamaria riproduce per noi. Dalle stelle dell’avere tutto, al declino più assoluto. Grazie ad una regia minuziosa (che strizza un pò troppo l’occhio a Romanzo criminale ed al cinema americano del genere, ma gliela passiamo), i 90′ volano via in un soffio tra la moglie di Perrone (interpretata da un’affascinante ma troppo rigida Valentina Cervi) che fa acquisti grazie ai soldi sporchi della Sacra Corona Unita ed il protagonista che stringe alleanze sempre più pericolose, in un far west contemporaneo, dominato e controllato da “una mafia postmoderna”, al suono insistente ed inquietante della voce fuori campo che racconta e commenta.
Un ultimo, isolato rantolo del cinema italiano impegnato, quello lanciato da Conte e Barletti: un esempio di quello che possono dare i nostri cineasti indipendenti quando gli viene permesso non solo di esprimersi, ma anche di trovare canali di visibilità.
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