Quando un film piccolo e “umile” (tanto nella produzione quanto nella confezione) come La banda riesce a raccontare con la forza muta delle immagini e con il gioco dei silenzi e del non-detto l’intero conflitto culturale che giace dietro la questione arabo-palestinese, siamo di fronte alla potenza dell’arte, alla capacità del cinema di farsi narratore del suo tempo. Il film di Eran Kolirin unisce a tutto questo la leggerezza e il timido umorismo proprio delle commedie venate di tristezza e solitudine, raggiungendo una piccola vetta nel suo genere.
L’idea alla base del film è quella di mostrare quanto la “pace fredda” fra arabi e palestinesi sia fondata su un’ostilità che col passare degli anni si è ossidata, incancrenita, fino a divenire intolleranza: un’intolleranza ingiustificata, a fronte di differenze culturali affatto nette e comunque sempre pronte a scomparire davanti all’universalità dei sentimenti e dell’animo umano.
Kolirin porta in Israele la banda della polizia di Alessandria d’Egitto: una piccola ma assortita ciurma di giovani e anziani, taciturni ed estroversi, mandati ad inaugurare un centro di cultura araba in una cittadina israeliana. Giunti nel Paese ospite e non essendo accolti o accompagnati da nessuno, i membri della banda devono sbrigarsela da soli. Sbagliando destinazione, si incamminano nel deserto, fino a giungere in un paesino, dove li accoglierà una famiglia di ristoratori, che darà loro vitto, alloggio e svago per una notte.
La macchina da presa di Kolirin segue prudente e discreta le vicissitudini notturne del capobanda, di un ragazzo e di un gruppetto di altri suonatori: se il primo (un anziano vedovo che sembra aver perso il senso della vita) riscopre la gioia dell’altro attraverso la compagnia della giovane “locandiera”, culturalmente aperta e pronta al confronto, il ragazzo arabo si mostrerà ben più “occidentalizzato” dei suoi coetanei israeliani, mentre il gruppo di suonatori, ospiti della famiglia ebrea, si scontrerà con la poca disponibilità al confronto della gente di quel posto sperduto nel deserto. Degne di nota in tal senso tutte le prove attoriali, a cominciare da quella del protagonista (Sasson Gabai), vero valore aggiunto dell’opera.
Il film ha la sua forza nella capacità di unire tutti gli opposti, tanto nei personaggi quanto nelle situazioni, al fine di dar vita ad un confronto a tutto tondo. La narrazione procede alternando silenzi e dialoghi multilingue, sguardi muti e loquaci gestualità, significative metafore visive e carrellate che si tuffano nei paesaggi urbanizzati del deserto israeliano, vero luogo-protagonista del film. Senza dimenticare una sottile e sempre piacevolmente presente vena umoristica, che alleggerisce il tono amaro e malinconico, mesto e nostalgico, surreale e profondo di un’opera delicata e importante, densa di significati e di insegnamenti, da consigliare a tutti (coloro che amano il buon cinema), a cominciare dai ragazzi delle scuole.
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