Selezionato ai Festival di Cannes e Rotterdam, e distribuito in Italia da Fandango, questo documentario dal titolo singolare, Per uno solo dei miei due occhi, offre uno spaccato davvero indipendente di una vicenda oltremodo tragica, quella dell’occupazione israeliana nei territori della striscia di Gaza, che non sembra vedere la fine. Il regista israeliano Avi Mograbi fa ricorso alle storie dell’antica tradizione biblica per raccontare e denunciare, con lo stile del documentario e la forza della convinzione personale, le difficoltà della vita quotidiana nei territori occupati, dove i giovani palestinesi dell’Intifada combattono costantemente contro le violenze, le umiliazioni ed i controlli invasivi ed arbitrari da parte dell’esercito israeliano.

Le immagini s’insinuano con vigore ed indignazione fra i contadini che non possono coltivare i campi, i bambini bloccati per ore ai check-point dopo la scuola, i malati impossibilitati a raggiungere l’ospedale, gli anziani che non possono rientrare a casa, ponendo domande dirette agli stessi soldati israeliani, spesso arroganti, che effettuano blocchi, ispezioni e perquisizioni sulla popolazione civile. Mograbi documenta con coraggio, spesso a suo rischio e pericolo come ex-militante nei gruppi di attivisti della sinistra israeliana, una situazione insostenibile.

Due i miti neo-testamentari cui il regista fa simbolico riferimento, il primo è il mito di Massada. Le scolaresche di ragazzi ebrei provenienti da tutto il mondo vengono condotte in questa località, dove sorge una collina isolata che sovrasta la sponda occidentale del Mar Morto, a perenne memoria di un gesto che dovrebbe essere considerato “eroico”: è a Massada infatti che, durante la rivolta ebraica contro l’occupazione romana, un gruppo di ebrei Zeloti ribelli (dopo aver massacrato 700 persone nella prospera città ebraica di Ein Gedi per procurarsi da vivere) si asserragliò, decidendo tempo dopo – a causa dell’assedio romano – di procedere ad un suicidio di massa piuttosto che arrendersi.

“Si deve sapere – asserisce il regista – che noi israeliani siamo stati educati a considerare gli Zeloti come eroi e combattenti per la libertà e ad identificarci con loro: ci hanno inculcato il principio che la libertà è più importante della vita e che sarebbe meglio morire che essere catturati dai nostri nemici. Ma lo storico Flavio Giuseppe descrive gli Zeloti come assassini, ladri, banditi e nazionalisti estremi, non come persone da ammirare ed io ho voluto raccontare di nuovo quella storia, oggi, un mito con cui si manipolano i giovani e che ha avuto piuttosto un impatto sui moderni kamikaze palestinesi”.

L’altro mito è quello di Sansone, detto l’Eroe, uno dei Giudici della Bibbia. La sua incredibile forza ed i suoi poteri soprannaturali provenivano dalla magica capigliatura: dopo che ebbe ucciso migliaia di Filistei, fu proprio la sua amata Dalila – costretta dai nemici – a tagliargli i capelli nel sonno ed a lasciarlo in balìa dei Filistei. Sansone è considerato un eroe nella tradizione ebraica perché, ormai prigioniero, di fronte a migliaia di nemici a Gaza, si appellò a Dio con le parole che danno il titolo al documentario: “Ricordati di me e dammi la forza, in modo che io possa vendicare uno solo dei miei due occhi contro i Filistei” e si uccise sradicando i pilastri dell’edificio e trascinando con sé nel disastro tutti i Filistei presenti.

Questa parabola, secondo il regista, dovrebbe dimostrare che Sansone non è un eroe né più né meno di un kamikaze, perché anche lui fece esattamente ciò che fanno i kamikaze. “Mi sono detto – continua il regista – che Sansone è il primo kamikaze della storia e mi è venuto in mente che potevo paragonare la storia di Sansone al mito di Massada e collegare i due miti agli eventi odierni in Israele e nei territori occupati. Questi spunti mi sono venuti in mente durante alcune conversazioni telefoniche con un amico palestinese che fin dal 2002 (al culmine del periodo dei kamikaze) ho trascritto e riportato in buona parte nel film”.

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