Sarà sempre troppo tardi quando il cinema italiano si scrollerà di dosso quella patina di artigianato da fiction per assumere finalmente i connotati professionali dell’industria. Il film di Giuliano Montaldo, a fronte delle buone intenzioni, dimostra tutti i limiti di questa visione provinciale e castrante dell’opera cinematografica. E non è solo questione di finanziamenti, dal momento che la confezione di questa pellicola in costume (altro non è infatti) è forse la caratteristica migliore del film.
Retorico, prolisso e assolutamente pretenzioso, I demoni di San Pietroburgo soffre in primis di una cronica mancanza di identità: non è un film sulla vita o sull’arte di Dostoevskij, dal momento che la presenza del sommo scrittore sembra più un pretesto per dare una patina accattivante al tutto, piuttosto che un modo per narrare dello spessore immenso della sua figura; non è nemmeno un film sui cambiamenti storico-ideologico-sociali della Russia di fine Ottocento, visto che troppo fugacemente e troppo superficialmente certi contrasti e certe concetti vengono messi in luce.
L’idea è infatti quella di narrare quel tormentato periodo della vita di un anziano e malaticcio Dostoevskij che coincise da una parte con la stesura – per forza di cose concitata – de Il giocatore, dall’altra con l’appoggio velato ed esterno alla causa degli anarchici che volevano attentare alla vita dell’intera famiglia imperiale. Un appoggio singolare e duale (come nella migliore tradizione dell’arte di Dostoevskij), che si tramuta esteriormente in negazione, rifiuto, persino denuncia presso l’autorità, ed interiormente in inconscia accettazione, in memoria di quell’ideologia che da giovane gli fece vivere la tremenda esperienza dei lavori forzati in Siberia.
La raffinatezza della confezione (in cui spicca una fotografia cupa come il periodo storico e come i territori infiniti e sperduti della Grande Madre Russia) fa il paio con una tecnica di ripresa ricercata e pretenziosa, che indugia in carrellate e movimenti circolari. Ma cozza d’altro canto con una sceneggiatura sì altrettanto elaborata, ma eccessivamente cervellotica, troppo tesa a giocare tra flashback e momenti onirici per preoccuparsi che l’attenzione dello spettatore possa stragli dietro per più di mezz’ora. Tutto troppo farraginoso, tutto troppo prolisso e allo stesso tempo tutto troppo superficiale!
Si potrebbe obiettare che, con un cast del genere, almeno la recitazione di classe sia assicurata: vada per gli interpreti maschili, tutti di primo ordine e autori di prove di grande spessore (bravi sia il protagonista Miki Manojlovic, sia il sempre ottimo Filippo Timi, irraggiungibile l’eterno Roberto Herlitzka in un personaggio tanto importante quanto ben disegnato); ma non si può dire lo stesso per un cast femminile ridicolo, fuori fase, capace di rovinare letteralmente ogni atmosfera. Lasciamo alla fiction del sabato sera Anita Caprioli e Carolina Crescentini, con le loro vocette improbabili: il cinema non ne soffrirà, ne siamo certi!
Assolutamente da menzionare infine (seppure – dispiace dirlo – in termini negativi) la colonna sonora di Ennio Morricone: nulla da dire sull’arte del Maestro (che comunque suona gli stessi motivi da 50 anni, ma va bene così…), ma l’invadenza opprimente di una musica onnipresente in qualunque scena, tanto da mascherare a tratti persino la voce stessa dei protagonisti, è davvero troppo. È effettivamente l’ennesimo elemento che contribuisce a confermare come le troppe anime di questo film fatichino a trovare una sintesi degna di una grande opera: questo distingue una fiction da un film, un bravo montatore da un autore vero. Peccato per il materiale sprecato, ma I demoni di San Pietroburgo è davvero un film non riuscito.
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