Nel 1998 Misha Defonseca conquistò il pubblico con un libro autobiografico, in cui raccontava come dal 1941 al 1945 aveva attraversato l’Europa a piedi dal Belgio all’Ucraina, sola alla ricerca dei suoi genitori deportati nei lager nazisti. In questo viaggio aveva incontrato mille difficoltà, pericoli umani e naturali e ad un certo punto era stata adottata da una famiglia di lupi.
A dieci anni di distanza l’autrice ammette di aver inventato “questa favola drammatica” per salvarsi da una realtà dolorosa, quella della guerra, e dalle accuse fatte a suo padre – durante la resistenza belga – di aver parlato sotto tortura.

“Chiedo perdono a tutti quelli che si sentono traditi…Questa storia si è la mia, però non la vera realta, ma piuttosto la mia realtà, la mia maniera di sopravvivere.”
(Misha Defonseca – Febbraio 2008)

Questo film nasce dall’incontro tra la regista Vera Belmont e l’autrice dell’omonimo libro Misha Defonseca, coetanee ed entrambe ebree. La Belmont, da sempre desiderosa di realizzare un film sull’Olo

causto, non voleva però raccontare ciò che molti avevano già narrato: decise così di dare al film un taglio favolistico-avventuroso, scelta coerente alla linea adottata dal romanzo.

I punti di forza di questo film sono: essenzialmente e in primo luogo la splendida interpretazione di Mathilde Goffart (Misha), che ha solo nove anni, ma nonostante la sua giovanissima età riesce a bucare lo schermo e ad arrivare dritta al cuore degli spettatori; l’ambientazione, poichè le scene sono quasi tutte girate in esterni (tra la Franca contea e l’Alsazia), con un paesaggio naturale, quasi sempre uggioso ed aspro, ma con dei momenti in cui la natura da matrigna diventa benigna ed accogliente, nei suoi pertugi più segreti come le tane dei lupi; e i lupi, questi splendidi animali, troppo a lungo demonizzati dalla nostra specie, capaci invece di accogliere e accudire esseri viventi bisognosi.

Sopravvivere con i lupi è un film poetico e metaforico allo stesso tempo, per non dimenticare il passato, per non cadere negli stessi errori, per imparare dagli animali che uccidono solamente per bisogno e non per diletto. La scelta di raccontare l’Olocausto con gli occhi di una bambina è vincente, permette ai più giovani di identificarsi e di essere a conoscenza di fatti della nostra storia che altrimenti rischierebbero, con l’andare del tempo, di essere dimenticati. Il film segue la scia iniziata da La vita è bella. E’ un film adatto a tutte le generazioni, che rimarrà impresso a chi vorrà andare al di là della verità relativa, per cogliere quella assoluta.

Una nota nostalgica: con questo film la Belmont ha colto l’occasione per fare un omaggio al suo maestro François Truffaut, indimenticabile autore di L’enfant sauvage.

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