Monaco: “La mia fede non mi permette di uccidere”
Gengis Khan: “La mia invece me lo impone”

Che il cinema (specie nell’era dei biopic) non si fosse interessato alle gesta “controverse” di un grande condottiero dell’antichità come Gengis Khan è una singolare mancanza, cui tenta di rimediare il regista russo Sergei Bodrov con un film in costume ricco, ben confezionato e discretamente strutturato, ma allo stesso tempo freddo come le steppe mongole e privo di un’anima. Troppo ragionato, Mongol non coinvolge fin in fondo, non fa appassionare alla figura del giovane Khan e non trasmette molto.

Allo stesso modo, la scelta di parlare dell’ascesa del giovane Temudjin, romanzandola all’infinito, senza toccare affatto le imprese che determinarono la conquista di un impero, è criticabile, ma non pecca in originalità. Mongol segue la vita del futuro Khan fin dall’età di nove anni quando, a seguito della morte del padre, si trova a fuggire per molto tempo dall’ira omicida di Targutai, nemico del genitore. Cresciuto praticamente da solo nell’immensità deserta della steppa, fatto più volte schiavo e altrettante volte fuggito, Temudjin (interpretato dal bravo attore giapponese Tadanobu Asano) troverà la ragazza promessa come sposa e inseguirà per anni questo suo amore tormentato. Fino alla battaglia finale, resa dei conti in cui nemici e fratelli si confonderanno, cadendo tutti sotto la stessa spada, pronta a dar vita ad un impero.

Se proprio tale battaglia finale è il trionfo della spettacolarità, sancisce la grandezza della figura di Gengis Khan e allo stesso tempo fornisce un interessante spaccato sulle tecniche di guerra del tempo, la mezz’ora che la precede pecca clamorosamente per mancanza di ritmo, a dispetto del tenore di una sceneggiatura fino a quel punto più che godibile.

La scelta (assolutamente condivisibile) di rivalutare la figura di Gengis Khan e sdoganarla dall’immagine di pazzo sanguinario si risolve infatti in uno script che trasforma Mongol in una infinita e un po’ forzata storia d’amore. Finchè battaglie, azione e ribaltamenti narrativi prevalgono, tutto funziona; quando il ritmo rallenta invece, l’effetto “romanzane romantico in costume” prende il sopravvento e la figura del Khan, più che rivalutata, ne esce come banalizzata. Peccato, perché era decisamente difficile non coinvolgere lo spettatore e non trasmettere emozioni pure con un personaggio del genere fra le mani!

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