L’esordio di Anthony Hopkins alla regia e alla sceneggiatura non brilla certo per originalità e per chiarezza di idee. Il bravo attore decide non solo di darsi nello stesso film alla direzione e alla scrittura, ma anche di recitare come protagonista unico e incontrastato di un film che è un vero e proprio delirio d’artista. Ma non in senso positivo. Effettivamente l’idea di fare da factotum sembra avergli dato un bel po’ alla testa e Slipstream ne esce goffamente, come il prodotto di una masturbazione mentale, di un gioco ad uso e consumo di chi lo ha inventato. Con buona pace dello spettatore.

L’intuizione (chiamiamola così – seppure non è certo cosa nuova) è quella di portare in scena ciò che può accadere nella mente dello scrittore, in questo caso proprio dello scrittore di cinema. Hopkins interpreta infatti Felix Bonhoeffer, un noto sceneggiatore all’opera sullo script di un film: ma la sua vita reale e quella immaginata per la celluloide cominciano a confondersi sempre di più, complice un blocco dello scrittore che non gli fa intravedere il finale e lo costringe a rivedere sempre le stesse scene. Cosa che accade non solo sulla carta, ma anche nella sua mente. I personaggi escono dal monitor del pc e invadono come allucinazioni la sua vita reale, tra omicidi e litigi sul set. Fino alla surreale rivolta dei personaggi, momento semi-comico di un film lento e confuso.

Il debito da David Lynch appare quanto meno evidente (ammesso che si riesca a comprendere quanto prima di cosa si stia parlando). Ma dal Maestro, Hopkins non riprende tanto le trame misteriose alla Mulholland Drive, quanto i deliri onirici alla Inland Empire. Ma la differenza fra l’originale e l’imitazione è evidente: qui l’effetto è solamente irritante, incomprensibile, vacuo. Il vero dramma è che il film soffre esattamente degli stessi disturbi del suo protagonista: non ha un trama (così come lo sceneggiatore non la trova per il suo film), si avvolge su se stesso ripetendo le stesse scene all’infinito (come accade nella mente del personaggio) e quasi fa star male lo spettatore (così come si riduce anche Bonhoeffer). Non sarà un caso, d’altronde, se quei furboni della distribuzione italiana hanno sottotitolato il film Nella mente oscura di H., lettera che non compare affatto come iniziale del nome del protagonista!

Nota di merito per la regia, che gioca sapientemente e volontariamente con i controcampi e soprattutto con i salti d’asse, per generare ancora più confusione e simboleggiare la sottile linea di passaggio tra la vita reale e il delirio del protagonista. Altrettanto lodevole il montaggio serrato, che quasi alterna inquadrature flash, stile messaggi subliminali, a sequenze più lente.

Insomma, se questo esordio alla sceneggiatura è tranquillamente catalogabile come fallimento (inutile voler fare di un’esperienza personale un film per tutti), ci sentiamo di rimandare ad una prossima esperienza l’Hopkins regista, che ha dimostrato di avere qualche asso nella manica. Da giocarsi, possibilmente, in una partita più fortunata.

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