Se una volta si usava realizzare un remake perché realmente le intenzioni alla base erano quelle di rimodernare un concept di successo, oggi non si fa neppure in tempo a commercializzare un qualsivoglia prodotto di intrattenimento che subito grosse case di produzione cinematografiche, come pesci piraña, si scannano per accaparrarsi i diritti.
Di recente è successo con REC, pellicola spagnola di cui si avrà a breve un remake americano, e nello specifico è successo con Chiamata senza risposta, ispirato all’originale The Call – j-horror giapponese del 2004.
Cos’è però che distingue The Call dal suo più recente remake? In verità, ben poco. La trama è pressapoco la stessa: Beth Raymond è terrorizzata dopo la morte di alcuni suoi amici, morti in circostanze tragiche dopo aver ricevuto una chiamata sul cellulare con un messaggio registrato da loro stessi, in cui dettagliatamente prevedevano il giorno e l’ora della propria morte. Beth, angosciata, inizia ad indagare assieme al detective Jack Andrews, che ha perso la sorella in circostanze analoghe.
Ciò che manca è l’approccio svampito ed esagerato di Miike, e ancora, non meno importante, l’ispirata tradizione volta al mistico della cultura orientale. Eric Valette preferisce abbondare di apparizione e squilli improvvisi, piuttosto che dare la possibilità alla storia di evolversi naturalmente, analizzando dall’interno i meccanismi che la compongono. Il suo è purtroppo un lavoro scenografico e visibilmente povero di validi contenuti. Gli attori, tutti rigorosamente bellocci e in formissima, non riescono a dare quella marcia in più alla pellicola, che si trova a reggere sulle sue deboli spalle una mole spropositata di cliché, stereotipi e concetti pseudo horror piuttosto comuni.
Ciononostante, non si condanna fortemente la tecnica – la quale nel suo piccolo riesce a sfruttare alcune escamotage narrative dell’originale per spaventare di soprassalto – piuttosto si polemizza sul fattore riciclaggio: in questo caso davvero inutile. Perché la stessa pellicola di Takashi Miike non è un esempio di cinema di qualità, bensì di tendenza. Peccato già da tempo si sia esaurito l’effetto RIngu, risultando, oggi più che mai, solo un lontano e sbiadito miraggio.
Una pellicola monouso per adolescenti accomodanti, nulla più.
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