Quando si prende il regista delle puntate televisive di Mr. Bean e lo si mette a girare una commedia sentimentale da quattro soldi, il risultato non può che essere scontato come il film stesso! La scontatezza infatti è proprio l’elemento portante di Un amore di testimone, pellicola a dir poco sconcertante per mancanza di originalità: a memoria d’uomo è difficile ricordare un tale ammasso di luoghi comuni e situazioni già viste, concentrate in un’ora e mezza, senza il minimo pudore e rispetto per l’intelligenza e la cultura dello spettatore. Questa volta nemmeno i cultori del genere o i fan del cinema hollywoodiano meno impegnato sapranno trovare un motivo per recarsi in sala.
Nell’opera di Paul Weiland, il cliché si fa pellicola con una facilità che ha del miracoloso: si passa dai luoghi comuni sui matrimoni a quelli sulla cultura scozzese (con una mancanza di ritegno come minimo offensiva), finendo persino nel campo della citazione velata ad altre pellicole di genere. Ma se non si hanno i mezzi culturali, anche la citazione diventa parodia. Ecco il punto: Un amor di testimone è la parodia di se stesso.
Si limitasse almeno a far ridere! Il film di Weiland invece si prende pure sul serio, evita accuratamente il terreno della commedia (la comicità non è cosa da tutti, d’altronde) e si getta in quello del sentimentalismo all’americana. Come altro definire infatti una storia zuccherosa e scontata che ha per protagonista un bellimbusto trentenne che non potrebbe esistere in nessun universo? Thomas (Patrick Dempsey) è il classico sciupafemmine, single e scapestrato (che chissà perché nell’immaginario di Hollywood equivale sempre a “iper-ricercato da donne bellissime”), amico fin dai tempi del college dell’unica ragazza della terra (Michelle Monaghan) che non è passata per il suo letto. Ovvio che lui scopra il suo amore per lei proprio mentre ella è in procinto di sposarsi: per la precisione con uno scozzese, ragazzo modello, ricco e irreprensibile, che ovviamente Thomas cercherà di distruggere, facendo da damigella d’onore al suo matrimonio.
Stupisce che ad una pantomima immonda come questa, fatta di una sequenza infinita di scene già viste e largamente prevedibili, di gag da cinema demenziale e persino di fugaci discese nel triviale, si sia prestato persino uno come Sydney Pollack (relegato comunque al cammeo più riuscito del film, quello del padre del protagonista): diciamo che, essendo passato di recente a miglior vita, questa siamo disposti a perdonargliela… Ce lo ricorderemo comunque che mercanteggia per telefono il contratto prematrimoniale con la sua giovanissima sposa, disquisendo sulla frequenza del pagamento in natura! Vedere per credere: se non altro, sarà l’unica risata che il film vi procurerà.
Per giunta, la versione italiana soffre di un doppiaggio per forza di cose limitante, che sega le gambe alla vis comica di certi dialoghi: a cominciare dal titolo (l’originale Made of Honor gioca con maid of honor, ossia la damigella da sposa) per finire con l’accento scozzese della famiglia dello sposo, è tutto un arrangiarsi su giochi di parole intraducibili. Ma di certo non sarà una visione in inglese a salvare le sorti di un film poverissimo, misero nelle idee e avvilente nei risultati: la classica spia che l’estate cinematografica è oramai cominciata.
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