Presentato a Venezia 2007 (dove ha vinto il Leone Speciale per l’insieme dell’opera) e candidato all’Oscar 2008 come Miglior Film Straniero, 12 viene presentato e distribuito come “il remake de La parola ai giurati” di Sidney Lumet. Mai come in questo caso le ragioni del marketing hanno reso poco giustizia allo spessore di un’opera splendida, complessa e – in un certo senso – unica come questa. Perché quello di Nikita Michalkov è un film completamente e profondamente russo, che tuttavia ha la forza di dipingere quella sfaccettata società anche ad uso e consumo di chi russo non è.

Si può piuttosto parlare di ispirazione, dal momento che l’impianto narrativo del film ricalca effettivamente la storia del capolavoro di Lumet: qui i 12 giurati sono rinchiusi in una palestra adibita a camera di consiglio, per decidere non della sorte di un latinoamericano, bensì di un giovane ceceno accusato di parricidio. Ne nascerà un intenso e lungo confronto sulla vita della Russia attuale, in cui ognuno dei protagonisti esporrà involontariamente ciò che lo inquieta del mutamente socio-culturale in atto nel Paese, riportando esperienze personali. Il confronto cambierà non solo i singoli giurati, ma anche il loro verdetto, inizialmente orientato quasi unanimemente alla colpevolezza.

Incredibilmente coinvolgente e vivo, nonostante la staticità della location (a riprova, si veda l’ottima scena della ricostruzione “fai-da-te” del delitto), il film gioca a mettere in ridicolo vizi e difetti dei singoli giurati (ignoranza e creduloneria su tutti) e ad esaltarne di contro la profondità e l’emotività durante i monologhi, sempre sottolineati da lunghi e coinvolgenti piani sequenza. Ci pensa qualche voluta ma breve discesa nel grottesco e nell’umoristico ad alleggerire la tensione. Il resto lo fanno un gran montaggio, degli ottimi attori (tutti col perfetto physique du role), il cui spessore emerge nei singoli monologhi, e infine una regia splendida, capace di movimenti di macchina sapienti e di inquadrature che si soffermano intensamente sui particolari e sui volti dei protagonisti.

Unico neo di un’opera peraltro ammirevole e quasi perfetta, il codazzo finale prolisso e didascalico, che abbonda in scene madri simboliche, con effetto controproducente. (Ma d’altronde siamo nella patria della semiotica e certi simbolismi sono parte integrante della cultura russa). Pochi minuti di sbavatura che nulla tolgono ad un film emotivo, emozionante e persino poetico, un’opera polifonica, completa e mai banale, da consigliare a tutti.

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