Il vero grande interrogativo di fronte a questa “seconda edizione” (non è propriamente esatto infatti parlare di remake) di un film vecchio solo di dieci anni è il perché della sua stessa esistenza. A chiarire il motivo per cui un autore debba riproporre scena per scena, inquadratura per inquadratura (semplicemente con attori diversi) un suo film, seppure il più noto, ci pensa il regista stesso, Michael Haneke: “Il film è destinato fondamentalmente a quelli che non hanno visto il primo Funny Games. È la sua principale ragione d’esistenza”. Il discorso sul nuovo Funny Games e su questa operazione commerciale, che tanto ricorda quella (ancora più inutile) dello Psycho di Gus Van Sant, potrebbe in sostanza finire qui.
Ma sull’onda di quanto fa Haneke stesso, ne scriviamo ad uso e consumo di chi non vide il film del 1997. L’intento è sempre quello di studiare il rapporto fra media e violenza, di denunciare l’impatto della rappresentazioni massmediatiche, spingendo lo spettatore a interrogarsi sul proprio ruolo. Ma con un approccio decisamente inusuale e di certo non diretto.
Siamo nella tranquilla casa di campagna di una tranquilla coppia alto-borghese (Naomi Watts e Tim Roth) con figlio piccolo a carico. All’improvviso irrompe in casa, con fare apparentemente educato, una coppia di ragazzi (Michael Pitt e Brady Corbet), con la scusa di chiedere qualche uovo da parte dei vicini di casa. La situazione degenera presto in un “gioco” tra gatto e topo di sadica violenza, in cui il finale sembra poter essere soltanto uno.
Per lunghi minuti l’atmosfera si carica di una tensione surreale e un po’ snervante. Anche perché la successione degli avvenimenti è alquanto scontata, per cui si finisce presto per attendere il prossimo atto di violenza, peraltro sempre nascosto all’occhio della macchina da presa (d’altronde – e certa parte del cinema horror ce lo insegna da decenni – il non visto fa più effetto di ciò che è manifesto). Per questo è lecito sottolineare come buona parte dell’effetto del film sia dovuto non tanto alla sceneggiatura, quanto all’attenta regia, che gioca con riprese originali. Nonché alla bravura del cast (questa volta ricco di grandi nomi), davvero in grande spolvero, nel quale si distinguono la Watts e Michael Pitt.
Non va dimenticato, comunque, che il vero intento di Haneke non è certo scioccare con la violenza (che d’altronde è solo “virtuale” e non visiva) né con la tensione. La chiave del film sta piuttosto in quel paio di scene – inattese e spiazzanti – in cui Michel Pitt parla con lo spettatore e usa il telecomando per far tornare indietro la scena. Ma se si voleva sbattere in faccia al pubblico occidentale il suo voyerismo, il suo essere naif e il suo amore per la visione della violenza (in un rapporto coi media sempre più malato di spettacolarismo a tutti i costi), l’obiettivo non è centrato in pieno e Funny Games finisce per girare a vuoto e persino per annoiare a tratti. Buona l’idea, coraggiosa la messa in scena, mediocre il risultato.
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