George Ratliff imbastisce un film con atmosfere alla Il sesto senso, lo struttura come un thriller psicologico e lo conclude come un film drammatico: un’evidente confusione di generi e stili che non giova né alla visione né alla comprensione né soprattutto all’identità e al significato dell’opera. E il finale è lì a sottolinearlo, con quel senso di incompiutezza che sa tanto di occasione sprecata e che quasi irrita lo spettatore, che attende invano per un’ora e mezza il sopraggiungere qualcosa. Oltre al senso di noia.
Sarà per la fotografia (che gli è valsa un riconoscimento al Sundance 2007), sarà per la prova del suo piccolo protagonista Jacob Kogan (che recita scimmiottando proprio Haley Joel Osment); sarà per quelle musichette che fanno sempre attendere (invano, purtroppo) il colpo di scena; sarà per le riprese che alternano carrellate e camera fissa: ma questo Joshua fa venire alla mente Il sesto senso una scena dopo l’altra. Tanto che è proprio questo continuo, involontario paragone che suscita quell’impressione di inadeguatezza e incompletezza nel finale: per troppo tempo si finisce per accostare tematicamente due film che invece sono molto diversi, seppure non stilisticamente.
Qui il piccolo protagonista Joshua è un bambino molto intelligente e dotato, ma anche psicologicamente disturbato. Quando gli nasce una sorellina, le cose in casa cominciano a peggiorare: la neonata non fa che piangere ininterrottamente, la madre (Vera Farmiga) cade vittima della sindrome post-parto e viene mandata a curarsi, il padre (Sam Rockwell) comincia a rendersi conto della gravità della situazione ma avrà anche lui difficoltà nel gestirla. E poco a poco si rende evidente come dietro tanti cataclismi ci sia anche la mano del terribile ragazzino.
Ratcliff sceneggia un film che fa scarso uso della parola e si affida alle sensazioni suscitate dai suoni (le inquietanti musiche da pianoforte del protagonista) e dai rumori (dai pianti della bambina ai crepitii dell’appartamento): buona l’idea, eccezionale nel rendere l’atmosfera da thriller, ma alla lunga si finisce per annoiare e snervare l’udito dello spettatore. Perché la trama è talmente diluita nel tempo che pare davvero non succeda nulla per larghi tratti. Poi d’improvviso quel finale che non t’aspetti, che lascia l’amaro in bocca, convince poco e rivela tutt’ad un tratto un altro film, in cui trionfa il male e la drammaticità e non certo il colpo di scena.
A quale scopo allora, tutto quell’impegno nel creare un’atmosfera, nell’accrescere la tensione (come avviene nella parte centrale) e nel caricare di significati ambivalenti la figura del protagonista? È l’unico vero mistero del film. Se ne consiglia la visione solo per apprezzare l’ottima prova del giovane Jacob Kogan e in generale di tutti i protagonisti. Alla larga se pensate di essere di fronte ad un thriller vero e proprio.
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