Gli indizi per parlare di mera operazione commerciale al riguardo dell’“evento” Righteous Kill c’erano tutti: la scelta di farne un thriller poliziesco (piuttosto che, ad esempio, un drammatico), quella di affidarne la conduzione al classico registucolo mai distintosi davvero (Jon Avnet), certamente più produttore che direttore, e non ultima quella di scegliere di mettere a confronto i due mostri sacri proprio ora, quando la loro carriera pare aver già detto tutto e la filmografia di entrambi latita da tempo di titoli decenti. Tutto ciò sulla carta: vedere invece coi proprio occhi come si è riusciti a trasformare la possibile pellicola-evento per ogni cinefilo in un filmetto se non da dimenticare, per lo meno dimenticabile, mette tutt’altra tristezza.

Ciò che più avvilisce comunque non è l’approssimazione con cui il prodotto è realizzato e confezionato (quello fa parte di tante operazione commerciali come questa), quanto piuttosto vedere come siano invecchiati i due attori e quanto non si vergognino di mostrare i loro evidenti limiti fisici: cose che in confronto l’ultimo Indiana Jones settantenne era quasi credibile! Non si sa se fanno più tristezza le corsette di un De Niro bolso e affaticato oppure le rughe infinite di Al Pacino o… il suo doppiaggio, completamente sballato, dai toni quasi ridicoli. Già, anche questo fa parte del senso di nostalgia, visto che la voce di Massimo Corvo fa rimpiangere quella dei doppiatori storici di Pacino (Amendola e Giannini), tanto che sembra sia colpa sua se gran parte della verve dell’attore appare svanita.

I due giganti dovrebbero dare il meglio di se stessi quindi nelle scene tete-a-tete e nei dialoghi: non a caso il film è strutturato per vederli entrambi contemporaneamente nello stesso campo quasi ininterrottamente dall’inizio alla fine, in una sequela a tratti stucchevole di dialoghi da scena madre. E invece non fanno presa, recitano svogliatamente, sembrano addormentati: De Niro non cambia espressione per 100 minuti, Pacino prova a metterci invece anche un minimo di brio e di sorriso ironico, ma non basta. Meglio comunque il secondo del primo.

Assieme interpretano due agenti di polizia con un curriculum stupefacente. Uno dei due (De Niro) viene però sospettato di essere il serial killer che sta uccidendo una serie di criminali scampati alla galera grazie a cavilli giuridici: un personaggio che insomma ricorda tanto quel giustiziere della notte, quel Taxi Driver che rese famoso a suo tempo proprio De Niro. L’altro (Pacino) tenta di difenderlo, sbandierando il suo stato di servizio. Interverrà alla fine un colpo di scena tanto sconclusionato quanto prevedibile a rovesciare le carte in tavola.

Grossa parte dei difetti del film di Avnet risiede proprio nella risibilità di questa sceneggiatura, che mette le carte in tavola nei primi 20 minuti e poi si trascina stancamente per oltre un’ora, senza aggiungere nulla, ripetendosi all’infinito scena dopo scena, fino ad arrivare a quella finta sorpresa del colpo di teatro, onestamente telefonato per i più smaliziati spettatori. E soprattutto già visto: senza voler togliere la “sorpresa” a chi legge, ma quel finale sarà stato utilizzato almeno altre cento volte nei polizieschi!

Tutto scontato insomma, un po’ ridicolo e soprattutto poco credibile per via dell’anzianità che i due protagonisti mostrano: dagli amplessi di De Niro in giù è tutto un susseguirsi di situazioni imbarazzanti. Si vorrebbe aver pietà di loro, si vorrebbe ricordarli diversamente, si vorrebbe rivederli con meno anni addosso: ma se non se ne sono vergognati loro, dobbiamo forse salvarli noi?

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