Dopo aver fatto il giro per i festival di mezzo mondo (tra cui anche l’ultima Festa del Cinema di Roma), quello che è stato definito il “Trainspotting belga” giunge anche nelle nostre sale. Operazione che ha quasi del miracoloso, vista la dose di politicamente scorretto, violenza, sesso e droga di cui è intessuto il film dell’ottimo regista Koen Mortier: sicuramente un film di nicchia e non certo per tutti, ma dotato di una forza non comune, di una tecnica a tratti notevolissima e soprattutto di una sceneggiatura che gioca sapientemente con significati e significanti, mescolando generi e atmosfere.

Ex Drummer introduce lo spettatore al mondo malato del punk-rock “di periferia”, fatto di droga, esagerazioni e sfoghi che vanno ben oltre il livello musicale. Lo fa con una storia dall’incipit semi-comico, quasi parodistico: tre musicisti (o aspiranti tali) cercano un batterista famoso per completare la loro band, ma sono tre disabili tossicodipendenti e vogliono che anche il quarto abbia qualche menomazione. Per la precisione, uno è uno stupratore violentissimo, un altro un gay incestuoso, attanagliato dal complesso d’Edipo, mentre il terzo è un drogato che si crede sordo. Si rivolgono ad uno scrittore ed ex batterista che accetta di entrare nel gruppo per studiare la vita di quel branco di disperati e per farlo si inventa di non saper suonare la batteria, quale prova della sua disabilità!

Si potrebbe pensare che la risata sia dietro l’angolo ad ogni scena, ma il tono del film è assolutamente serio, continuamente teso a rappresentare il mondo della discesa agli inferi, rappresentato dall’abuso di droghe. Il parallelo con Trainspotting non solo è permesso, ma viene persino più che naturale pensare ad una chiara ispirazione da parte di Mortier. Ma laddove nel film di Danny Boyle il lato pseudo-umoristico era funzionale all’esaltazione di un’angoscia profonda, qui i due piani rimangono distaccati e purtroppo ad avere la meglio dal punto di vista stilistico sono le sporadiche scene comiche, ben pensate, quasi geniali (si pensi – su tutte – alle trovate inerenti al personaggi chiamato Big Dick).

Mortier rivela una tecnica registica fuori dall’ordinario, non foss’altro per l’originalità: l’uso dei carrelli circolari e della macchina fissa è alternato con sapienza e giudizio, mentre scelte come quella di rappresentare il mondo dello stupratore come capovolto sono perle di genialità (e a tal proposito citiamo anche i titoli di testa e la scena iniziale). Trasportato da tale stato di grazia comica e stilistica, il regista sottovaluta però l’importanza dell’aspetto drammatico, affidandone la riuscita alle sole scene d’impatto, che sono sì di inaudita violenza psicologica, ma vengono troppo attutite da uno stile e da un’atmosfera

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