Regista di videoclip Anton Corbijn (U2 e Depeche Mode nel suo curriculum), ma in Control non indulge affatto nello spettacolarità, mescolando invece quell’originalità stilistica tipica di chi realizza corti (o video musicali, che dir si voglia) con l’intimismo che non ti aspetti nel biopic di una rockstar. Ne vien fuori un film bello e ricercato, ma decisamente sui generis se ci si aspetta di conoscere qualcosa in più della storia dei Joy Division.

Al centro di tutto c’è invece solo ed esclusivamente il loro carismatico e tormentato frontman, Ian Curtis, che a metà degli anni Settanta fece emergere dal nulla di un sobborgo dimenticato di Manchester una band che fece da ponte tra le sonorità di quegli anni e quelle di parte del decennio successivo. Calcarono le scene per pochi anni, ma lasciarono una scia ben distinta i Joy Division, come certe meteore: a spegnere il loro astro fu il suicidio di Curtis, avvenuto proprio nel 1980, a soli 23 anni.

Control ci racconta proprio il travaglio dell’anima di un ragazzo sensibile e profondo, ma tormentato da inadeguatezze fisiche e psicologiche che emergeranno dapprima nelle sue liriche più gotiche e poi nel tragico gesto finale. Corbijn sceglie il volto incredibilmente somigliante di Sam Riley per narrarci la vita di Curtis dagli esordi con il gruppo (allora chiamato Warsaw), fino alla morte, passando per il precoce matrimonio, la vita in tournée, protesa fra l’amore per l’amante e la famiglia cui si era aggiunto il figlio; e ancora, l’eredità dei suoi idoli musicali (tra cui Bowie) e infine i problemi di epilessia che minarono definitivamente la già fragile psiche del cantante.

Girato in un bianco e nero assai originale (pare piuttosto un colore molto sbiadito), che sembra sospendere la storia in un’epoca non definita, Control quasi nulla concede all’aspetto artistico della vicenda di Curtis e quindi ai Joy Division: ci sono le loro canzoni – è vero – a cui si mescolano quelle di David Bowie, Iggy Pop e degli Who, ma i fan non cerchino la classica agiografia rock su e giù da un palco. Qui c’è la storia di un ragazzo, l’intimismo della sua infinita sensibilità: niente sesso-droga-rock’n’roll. Per questo la sceneggiatura sceglie piuttosto un ritmo lento e dilatato (ma non per questo noioso) e si concede pure volutamente diverse ellissi narrative, specie nella parte iniziale, che lasciano allo spettatore (anzi, al fan) il compito di colmare quei vuoti quasi “storici”.

Di certo in ogni caso, parliamo di un film fortemente di nicchia. Se a ciò uniamo il fatto che l’uscita sul nostro mercato avviene a oltre un anno da quella nel resto del mondo, che il numero esiguo delle sale renderà un’impresa trovare una copia del film e che la fama dei Joy Division da noi è particolarmente ridotta, ecco che abbiamo in mano un prodotto che nel nostro mercato avrà vita assai breve. Alla nicchia dei fan del gruppo e a coloro che amano i biopic intimisti consigliamo quindi di correre in sala al più presto.

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