Con la sua prima prova da regista, The Station Agent (2003), Thomas McCarthy aveva già dimostrato di avere un certo talento per le storie intimiste di un’America così lontana da quella che Hollywood passa di solito sui nostri schermi. L’ospite inatteso conferma questa sua prerogativa e si propone come un raro esempio di film sulla detenzione e in particolare su ciò che tale esperienza rappresenta per coloro che rimangono al di qua delle sbarre, a tentare di dare un senso a tutto e allo stesso tempo a provare ad aiutare tanto chi non è più con loro quanto se stessi.

Anche qui McCarthy sceglie un interprete azzeccato per dare un volto ad un altro personaggio padrone della scena dall’inizio alla fine: lì (in The Station Agent) fu Peter Dinklage, qui è il poliedrico Richard Jenkins, capace di passare dalle commedie (Burn After Reading, Rumor As It, I Heart Huckabees) a drammi di questo spessore (d’altronde i fan della serie tv Six Feet Under lo ricorderanno come lo splendido personaggio del padre defunto, raro esempio di sintesi fra commedia e tragedia).

A lui spetta il compito di interpretare un professore universitario la cui carriera non è mai decollata, deluso da se stesso e ancora alla ricerca di una propria identità, nonostante la non più giovane età. Mandato a New York per un congresso, scoprirà che nella sua abitazione (in cui non torna da tempo) è finita ad abitare una coppia di stranieri (un siriano e una senegalese), che si guadagnano da vivere onestamente nella Grande Mela, nonostante non abbiano il permesso di soggiorno. Lui si offrirà di lasciarli vivere ancora un po’ con lui, ma le cose finiranno in catastrofe quando il ragazzo verrà fermato dalla polizia e condotto in un centro di detenzione, in quanto clandestino.

Da qui il film cambia ottica, spostando l’attenzione dalla monotona vita di un uomo che passa da uno strumento musicale all’altro alla ricerca di se stesso, del suono giusto della sua esistenza, a quella di un nucleo familiare allargato che soffre per una sorte percepita come ingiusta. C’è lirismo sommesso nel film di McCarthy, c’è attenzione e sensibilità per una sorte tanto comune a tante persone (in America e non solo), c’è voglia di far capire come certe situazioni non tocchino solo gli stranieri, c’è infine tanto simbolismo e tanta delicatezza nell’affrontare il dramma senza indulgere nello strappalacrime. Esemplare e memorabile il finale, che costringe la nuova famiglia allargata a disgregarsi; da ricordare la sequenza del traghetto che si allontana dalla costa, simbolo di un sogno americano che non ha saputo mantenere la sua promessa; toccante la scena finale, dove lo sfogo del protagonista si riversa impotente sulle percussioni tanto care all’amico.

In definitiva, un film da non perdere, un’opera per certi versi unica nel suo genere, originale in quanto capace di affrontare un argomento poco trattato, parlando dei sentimenti, senza sprecare parole, col solo mutismo delle emozioni. Ottimo il cast, ottima la sceneggiatura, pulita ed essenziale la regia. Un’opera piccola e affatto pretenziosa, che speriamo sappia fare breccia tanto nelle sale quanto nei cuori del pubblico.

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  1. 1
    Sergio

    A volte i miracoli si avverano. Quando poi – come nel caso del triste professore deluso dallo spettacolo della sua vita insulsa di cui è inerte spettatore (The visitor) – la molla che gli consente di riappropiarsene e darle un senso è rappresentata da alcuni “diversi” e che non si vuole siano integrati, allora il miracolo diventa doppio. Perchè attribuisce ad ogni umano un ruolo specifico e salvifico, a prescindere da nazionalità e colore della pelle.

    Un film da non perdere. Una sommessa e insieme poderosa riflessione sul fatto che per uno che riesce a riprendersi la sua vita ce ne sono altri tre costretti a perderla, a regredire e ricominciare da capo.

    Una regia magistrale, che si mette con sommessa bravura al servizio degli eventi che racconta. Un cast di prim’ordine, dove tutti fanno a gara di recitazione. Richard Jenkins (il professore) è perfetto nella sua parte e sorprende cdhe sia assurto così tardivamente al ruolo di prrotagonista. La sontuosa Hiam Abbass (la madre di Tarek) illumina di luce viva ogni scena in cui appare.

    Una storia che tocca il cuore e sollecita la mente. Di quelle destinate a restare scolpite nella memoria.

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