Se c’è un genere in cui i francesi si trovano a loro agio, è quello dei film corali: li sanno dirigere, sanno scegliere i tempi e i personaggi, sanno trovare storie equilibrate. Proprio della strana e ambigua sintesi fra equilibri e sproporzioni vive l’ottimo Racconto di Natale, diretto da Arnaud Desplechin: un’opera quasi teatrale nella struttura, divisa in atti, splendidamente recitata e girata con uno stile ora divertito, ora citazionista.
Il soggetto è la vera forza del film: il racconto delle tensioni mai sopite all’interno di una famiglia, che emergono durante il più classico e “temuto” dei ritrovi benedetti dalla tradizione, ossia la cena di Natale. Desplechin riunisce sotto lo stesso tetto i personaggi che compongono tante famiglie, stressandone gli odi e i dissapori, smascherando ostilità che non sembrano avere un motivo (perché le loro ragioni risiedono nell’animo), rivelando cattiverie che non ti aspetti, rovesciando l’etica dell’amore filiale, solidarizzando con le solitudini e gli insuccessi della vita. Insomma, è Natale e non siamo tutti più buoni.
A ricordarcelo c’è una famiglia tartassata da un destino di malattie e morti premature: dopo aver dato alla luce un figlio morto da piccolo per una malattia genetica e dopo averne generato un altro nel vano tentativo di dare al primo una fonte per un trapianto, Junon (Catherine Deneuve) si ritrova oramai anziana e con un problema simile. Per salvarsi chiederà l’aiuto della sua famiglia, alla ricerca di un donatore di midollo: per questo sceglierà di riunire tutti nella stessa casa per Natale, in barba al fatto che i due figli rimastile si odiano da una vita, che tra i vari cugini è nascosta una storia di amori negati e che i parenti acquisiti non sono meno problematici di quelli di sangue. Ma si sa, Dio li fa e poi li accoppia…
Nello spazio di due ore e mezza che fluiscono leggere come nulla fosse, Desplechin ha tempo di analizzare le relazioni che intercorrono tra i numerosi grandiosi protagonisti e le sfumature psicologiche dei singoli, privilegiando il ruolo dei due fratelli in lotta (interpretati da una coppia fantastica, composta da Anne Consigny e Mathieu Amalric) e tralasciando forse un po’ troppo quello di alcuni altri componenti della famiglia. Ma il distacco non si percepisce nettamente e proprio in questo fortunato “equilibrio dello squilibrio” sta uno dei meriti maggiori dell’opera.
La tristezza di questi spesso inutili e controproducenti ménage familiari è narrata con l’uso di tecniche registiche vecchio stampo (occhi di bue indugianti, zoomate esagerate) che rivelano un tocco divertito e alleggeriscono il tono della narrazione, pur risultando tuttavia spesso troppo isolate e fine a se stesse.
Rimane la forza di questo dramma familiare natalizio, l’effetto catartico che avrà su chiunque ne ha ben note le dinamiche sottese (per esperienza di vita), tanto che non si può non raccomandarne la visione a chi aspetta con terrore l’ennesima “rimpatriata” forzata, l’ennesima serie di frecciatine da cenone, che la tradizione impone oggi a nuclei familiari sempre più disgregati e soli.
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