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Sono passati esattamente 10 anni da quando Sam Mendes ci sconvolse raccontandoci chi siamo, con quel capolavoro che fu American Beauty, probabilmente uno dei film più belli del suo decennio. Sulla stessa scia – evidentemente a lui non solo cara, ma anche estremamente congeniale dal punto di vista narrativo – si iscrive oggi Revolutionary Road, che intende raccontare piuttosto chi eravamo: o meglio, chi erano gli Americani della provincia negli anni Cinquanta. E il risultato è di nuovo prossimo al capolavoro.

Forse l’effetto qui è meno shockante e incisivo (dal punto di vista dell’impatto emotivo), perché diversi sono gli universi a confronto, i periodi storici, le dinamiche di tensione sociale sottese e la natura stessa dei protagonisti, qui certamente più illusi e meno compassati di Lester Burnham e famiglia. L’ambientazione è nuovamente quella da sobborgo americano: siamo nel Connecticut e una tipica famigliola con due figli piccoli si è appena trasferita nella tranquilla e un (bel) po’ deprimente Revolutionary Road. Lui lavora con scarsa soddisfazione per un’azienda di autovetture, lei sogna di trasferirsi a Parigi per lavorare lì e campare da sola tutta la famiglia. Il sogno stuzzica la fantasia dello scontento marito, si trasforma in progetto e passa di bocca in bocca tra gli amici della coppia, che fanno a gara a deriderne l’inconsistenza e la scarsa realizzabilità.

Ma sotto sotto a muovere tali reazione è piuttosto l’invidia di chi percepisce la drammaticità di quell’esistenza vuota e banale e vorrebbe anzi seguire l’esempio. Tutti contenti quindi quando il sogno si infrange per una serie di accadimenti concomitanti e la coppietta è costretta a confrontarsi di nuovo con il “vuoto disperato di tutta la vita qui” – come sintetizza in maniera esemplare il protagonista – dando sfogo a tutte le tensioni sopite e alle frustrazioni da conformismo borghese.

L’effetto finale è ancora una volta sconvolgente per il suo realismo, per la facilità con cui sbatte in faccia allo spettatore la pochezza di un’esistenza passata a rimanere negli schemi. E colpisce perché tanto diversa da oggi in fondo quella realtà non lo è affatto, specialmente se si parla di vita di provincia. Se l’esordio scorre placido (anche troppo), quel tanto che basta a mettere le carte in tavola, la seconda parte sale di livello, rivela la direzione del film e dà modo alla coppia protagonista di esprimersi al meglio in una serie di confronti e litigi da antologia dei rapporti di forza uomo-donna nella società borghese.

Già, non si può dimenticare il ruolo giocato da due attori come Leonardo DiCaprio e Kate Winslet che, a 12 anni di distanza da quel primo fortunatissimo incontro sul Titanic (che lanciò lui e rinverdì lei), si riuniscono rivelando quanto profonda sia la loro alchimia. Se sulle qualità di lei si potrebbe disquisire (seppure la prova fornita qui è senza dubbio tra le sue migliori), per lui non possiamo che aspettare il fatidico Oscar, oramai sempre più meritato.

Da segnalare infine la bellezza e profondità del personaggio più intenso e fulminante di tutto il film, il povero pazzo amico di famiglia che, a furia di urlare che il re è nudo, demolisce pezzo per pezzo le già poche (e finte) certezze della coppietta felice. Interpretato da uno stratosferico Micheal Shannon, è uno dei fulcri e dei momenti di maggior splendore di un film da non perdere affatto. A meno che non si tema di scoprire che Revolutionary Road non è poi tanto lontana da casa propria.

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