tiamerosempre

Come tornare nel mondo dopo l’esperienza del carcere e, superando l’estraneità, rinascere a nuova vita. Come accogliere in casa una persona pressoché sconosciuta e, superando la paura e le convenzioni, ritrovare il proprio passato. Il legame fra due sorelle, Léa e Juliette, bruscamente interrotto quindici anni prima da un tragico evento che si disvelerà poco a poco, ha una seconda chance quando Juliette, rinnegata dalla famiglia d’origine all’indomani del crimine, esce dal carcere dopo aver scontato una pena lunga ed alienante.

Léa, sollecitata dagli assistenti sociali ad aiutare la sorella di molti anni più grande di lei, non ricorda quasi nulla dei fatti, avendo subito l’imposizione dei genitori al silenzio ed all’oblìo, ma accetta ugualmente di prendere con sé Juliette e di inserirla nel suo nucleo familiare (un marito, due bambine adottate in Vietnam, un nonno muto per un ictus) ed amicale.

Questa la trama del film Ti amerò sempre (in originale Il y a longtemps que je t’aime), opera prima da regista di Philippe Claudel, romanziere e sceneggiatore francese internazionalmente conosciuto per il libro Le anime grigie. “Ho immaginato questa storia – afferma il regista – da subito in termini di immagini, non come un romanzo: volevo raccontare di una donna che ritorna nel mondo, dopo il carcere, grazie all’aiuto degli altri e che per farlo ha bisogno di tempo. Spero che la trama faccia riflettere lo spettatore, lo ponga come di fronte ad uno specchio: per ottenere questo effetto devo sentirmi vicinissimo ai protagonisti, rappresentarli nella loro verità, senza orpelli. Io ho insegnato per dieci anni in carcere e so che l’onda d’urto di un dramma investe un’intera famiglia. Ma ciò che ridà vita alle due donne è la nostalgia del loro rapporto di sorellanza, mai dimenticato”.

La storia di queste due sorelle, entrambe toccate – sia pur in modo diverso – da un fatto spaventoso, fa presa sullo spettatore, che vuole saperne di più sul loro segreto, che aspetta la soluzione e l’assoluzione dei personaggi, e fatica a non piangere nella scena catartica finale – girata ad arte per creare un pathos immediato – in cui Léa e Juliette finalmente si affrontano e le parole e le lacrime scorrono senza più ritegno insieme al coraggio della verità ritrovata.

Merito anche delle due protagoniste, principalmente Kristin Scott Thomas (vincitrice dell’European Film Awards 2008 per questa interpretazione), semplicemente strepitosa nel ruolo della scolorita ed indurita Juliette che si riappropria con lentezza della vita e della luce, ma anche della giovane Elsa Zylberstein, nel ruolo della sorella minore Léa, vulnerabile ed affascinante nelle sue nevrosi, ossessionata da un rapporto basato sull’assenza.

Sullo sfondo della relazione fra le due protagoniste, che a poco a poco si “riconoscono” e lavorano sulla ricostruzione di sé stesse e delle proprie identità, si affolla una ridda di personaggi complessi ed interessanti, che rispecchiano lo sguardo della società e le sue paure su temi fondamentali di tutti i tempi: il giudizio morale ed il senso di colpa, la malattia e la vecchiaia, il perdono e la giustizia, la solidarietà e la speranza. Dunque mariti, amici, datori di lavoro, poliziotti, assistenti sociali, bambini, compongono una rete sociale che può contribuire alla rinascita o alla morte, talvolta purtroppo autoindotta.

Girato interamente a Nancy (dove l’autore vive e lavora), il film ha volutamente evidenziato, con una ricercata cura dei dettagli, la vita di una famiglia della borghesia intellettuale di provincia, benestante ma non ricca, che vive in una casa antica piena di libri ma senza lusso, che veste con eleganza discreta ma con estrema semplicità, come nella ‘vita vera’. “Vedo troppi film – conclude Claudel – in cui anche gli impiegati vestono Prada o in cui le case, anche le più modeste, sono ammobiliate con pezzi di designer che i personaggi non potrebbero permettersi con i loro stipendi (in questo caso insegnanti e ricercatori). Questa è una storia che volevo ambientare in provincia, né potevo immaginarla o girarla altrove, ne andava dell’intera credibilità del progetto”.

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