Ambiziosa opera prima di Ago Panini (regista che viene dalla pubblicità), Aspettando il sole è farcito di alcuni dei più bei nomi della recitazione cinematografica italiana – ma paradossalmente qualcuno in conferenza stampa ha detto a Giuseppe Cederna, per fargli un complimento, che la sua sembrava invece una recitazione teatrale…
Oltre a Cederna, che per questa prova ha ricevuto il premio per la migliore interpretazione maschile al 26° Festival del Cinema Italiano di Annecy, vediamo in azione Raoul Bova, Claudia Gerini, la Incontrada, Santamaria e tanti altri, tra cui il cammeo di un altro grande membro della banda-Salvatores, Bebo Storti.
Per carità, non si tratta di un film a episodi – così almeno ha tenuto a precisare il regista –, semmai cross-gender, suddiviso in tante situazioni quante sono le stanze dell’albergo che costituisce l’unità d’azione del film.
Abbiamo così il thriller ambientato nella hall dove Cederna fronteggia due balordi che cercano di svoltare la serata (oltre al romano Claudio, il bravo Michele Venitucci dalla Puglia); il sado-maso con la Gerini che sventola le sue grazie (sembra abbia fatto così anche durante le pause delle riprese, girando in lingerie nell’ostello di Roma dove è stato allestito il set); il drammone sentimentale tutto risolto in una lunghissima telefonata tra un Bova in calzini, barba lunga e improbabile accento umbro-burino e la molto più giovane fidanzata fedifraga; il porno alla Boogie Nights, con Storti che ammicca a Tinto Brass mentre Sergio Albelli nei panni del produttore-operatore-tuttofare filma l’ispanica Vanessa – nome già quasi da pornostar – e Corrado Fortuna a letto; lo psico-poliziesco con il siculo (ma piemontese nella vita) Gabriel Garko e il napoletano Raìz, ex cantante degli Alma Negretta che ha portato in dono a Panini il bel rap-soul che dà il titolo alla pellicola.
A parte il siparietto molto godibile tra un inquietante Rolando Ravello e il suo adorato cane volpino, va segnalato il surreale dialogo tra Garko e Massimo De Lorenzo, alias Michele Magnifico, torrenziale e truffaldino protagonista di una televendita notturna, su cui non casualmente si sofferma la sceneggiatura tra i tanti programmi che fanno da contrappunto alle vicende in corso nelle varie camere d’hotel: infatti, l’azione si svolge nell’anno di grazia 1982, a ridosso “dell’avvento massificato della televisione commerciale, e poco prima dell’invasione di cellulari e connessioni internet”, insomma uno degli anni di svolta per la provincia-Italia, che proprio allora iniziava a popolarsi di impostori sporgenti dal tubo catodico…
Tutt’intorno, come dice il regista, una serie di personaggi borderline, fuori della norma o, come detto da Albelli a proposito dei personaggi del suo pezzo, un ambiente quasi circense, in cui vagano patetiche anime sconfitte.
Dunque, un film claustrofobico e ipertrofico, che forse un più severo lavoro in sede di montaggio avrebbe potuto alleggerire di alcuni “episodi” non molto riusciti, ma che nel complesso si fa voler bene; forse perché suggerisce che l’Hotel Bellevue, dove si intrecciano personaggi dialettali, è una metafora dell’Italia, sempre sull’orlo di crollare su se stessa, minata al suo interno da parassiti che si nutrono delle sue energie migliori.
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