loveshopping

Cosa si poteva pretendere che un’industria come Hollywood tirasse fuori da una serie di libercoli americani fino al midollo e sinceramente nemmeno originali, se non un filmetto ridicolo per un target circoscritto al minimo? P.J. Hogan sembra non essersi nemmeno impegnato a cercare di inventare una battuta, di trovare una maniera per svegliare chi si è addormentato nell’ultima mezz’ora: convinto che “tanto basterà il titolo ad attirare le lettrici”, ha settato l’asticella sul grado minimo d’impegno, lasciando fare il resto al marketing. Che poi anche quello, vista la fama dei libri di Sophie Kinsella, si fa praticamente da sé. E l’assenza di sforzi si traduce in assenza di risultati.

I love shopping parte come una qualunque delle mille commedie che vanno tanto negli ultimi tempi, di quelle con giovane donna protagonista, settate per un target esclusivamente femminile, sospese in un mondo trasognato e di favola che non esiste nella realtà (manco fossimo nella Hollywood degli anni Cinquanta!) e sempre pronte a rispolverare una serie impressionante di clichè, di situazioni già viste (vedasi la love-story di turno) e di schemi narrativi vecchi come il cinema. Ci si chiede come siano le donne le prime a non sentirsi umiliate o prese in giro da tali rappresentazioni del loro universo e dei loro sogni: ma evidentemente, specie quando le cose non vanno benissimo, piace sognare e questo è ciò che basta.

Tutto ciò non si tramuterebbe nemmeno in una colpa per il film in sé, che alla fin fine scorre facendosi guardare tranquillamente per un’ora, strappa mezzo sorriso qua e là e rende persino simpatica l’idiozia e la demenza della protagonista: certo, finchè si capisce che non è reale! Poi capito il concetto, inquadrato il personaggio, intuita la storia, focalizzato l’ovvio finale da Cenerentola ben prima del suo approssimarsi, tutto l’apparato comincia a stancare. Non solo: la sceneggiatura si perde – come sempre in questi casi – negli ultimi 30 minuti, proprio quando appunto l’attenzione e l’interesse cominciano a calare e avanza faticosamente senza niente da dire o raccontare, con una pesantezza narrativa che spingerebbe a far spegnere il proiettore per fare un piacere al film stesso!

Un discorso a parte lo meriterebbero il personaggio e la sua interprete Isla Fisher (campionessa di commediole del genere, come Certamente, forse, Due single a nozze e I Heart Huckabees): l’idea di rappresentare la classica donna affetta da shopping compulsivo (ne esistono tante, questo è vero) che finisce a scrivere consigli su come risparmiare per una rivista di economia, quando lei stessa è sommersa dai debiti, è decisamente carina, tutto sommato (e questo è però merito del libro, non del film). Ma dare quel volto, quei vestiti, quelle espressioni idiote al personaggio vuol dire renderlo macchietta da prendere in giro: solo sull’improbabilità e sul dubbio gusto degli abiti fatti indossare alla Fisher si potrebbe scrivere un trattato. E questa dovrebbe essere l’esperta di moda? Spiacenti, ma Il diavolo veste Prada è lontano un miglio: è lontano il suo “realismo” nei confronti di quel mondo, rimangono solo gli aspetti superficiali da favoletta. E, visto che il film di Hogan sfrutta chiaramente la scia di quello di David Frankel, ecco spiegato il tonfo di una pellicola buona solo per il product placement.

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