Le sevizie subite portano necessariamente ad una vendetta da infliggere. Sangue, fucilate, coltelli, giravite, pelle strappata, sbobbe, vomito, calci, schiaffi, catene, osservatori e gibboni allo zoo, vittime che si fanno carnefici e uomini che cercano la verità negli occhi sofferenti del prossimo.
Pascal Laugier gira un horror durissimo, dove la violenza ed il dolore non abbandonano mai lo spettatore in cerca di rigenerante espiazione. Poche immagini lasciano sereno il pubblico letteralmente ostaggio, come le protagoniste, di un incubo dal quale non si ha modo di affrancarsi. Si inizia a correre con la prima attrice che scappa da una segregazione per imbracciare con lei un fucile a pallettoni e far fuori i suoi torturatori.
C’è un mostro dentro ognuno di noi che ci spinge ad infliggerci dolore, a tagliarci per spurgare, a rovesciarci lo stomaco per tornare a nutrirci di buoni sentimenti. L’essere deforme appare, infligge, sparisce, accompagna sulla via della perdizione ma fintanto che si manifesta, garantisce, con la sua afferrabilità, l’illusione che si possa sconfiggere e tornare a vivere.
Il percorso delle martiri è raccontato attraverso tre diverse vittime in differenti stadi di oppressione. Intorno a loro cinici e accaniti ricercatori di sguardi vuoti, assassini pronti a toccare con mano l’altrui disperazione in cerca di una garanzia, di indiscrezioni relative all’al di là, bramanti contatti con santi che con la loro luce possano trascinarli fuori dalle tenebre nelle quali sono costretti.
Per chi riesce a resistere alle torture che spesso superano lo schermo aggredendo i punti vitali degli astanti, il film scorre senza respiro, tenendo tutti attaccati alla speranza di uscire prima possibile, di liberarsi di questa sconsideratezza, a chiudere i conti con tanta ferocia, godendo però nel provare emozioni, nel soffrire perché impossibilitati ad abbandonarsi all’immedesimazione con le vittime senza agognare una riscossa, governando la crescente voglia di afferrare un coltellone e dare un taglio a tutto.
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