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Sui nostri schermi il 17 luglio, dopo aver catturato l’attenzione del pubblico (statunitense prima ed inglese poi) grazie alla sua presentazione al Toronto Film Festival del 2008, Ghost Town è un’educata commedia romantica dal retrogusto fantasy, al cui interno si nascondono screziati sottoinsiemi di pregevoli personaggi, che sembrano volere a tutti i costi uscire dagli schemi di un plot già di per sé fuori dall’ordinario.

Essi sembrano, infatti, prender vita per proprio conto, instillando un potente senso di malinconia negli spettatori, costretti ad osservarli da vicino senza mai poter intervenire, senza potergli dare quei giusti consigli che servirebbero a mutarne gli intrecciati destini.

Accreditato come il primo film la cui colonna sonora contiene un brano originale dei Beatles, pur non riguardandoli tematicamente (come, ad esempio,  lo psichedelico Across the Universe), è proprio nella soundtrack che risiede la maggior nota di merito ed eccellenza, dacché s’intende alla perfezione con la nostalgica ironia di fondo dell’opera di uno dei più importanti sceneggiatori dell’ultimo ventennio, David Koepp (Jurassic Park, Angeli & Demoni) che, dopo il pessimo Secret Window, ci riprova qui anche in qualità di regista.

Da I’m Looking Through You, dunque, che con eloquente maestria chiude una conversazione telefonica del bravo (ed elegante) Greg Kinnear – presto nei panni dell’inventore del tergicristallo in Flash of Genius -, alla bellissima The Heart of Life di John Mayer; da Citizen Cope, già complice delle apprezzabili musiche di Prime, a Brendan Benson con What I’m Looking For, le cui parole si riflettono attentamente nello specchio assieme a Ricky Gervais (The Office), in una delle scene portanti della pellicola. Da Wilco e Jeff Tweedy a Mason Jennings, infine, tutti autori delle principali cover di Bob Dylan in Io non sono qui.

Ambientato nell’Upper East Side di una New York ideale e confortevole, Ghost Town si svolge lungo una trama lineare quanto insolita e fittizia, viaggiando su treni e binari paralleli quando Bertram (Gervais) e Frank (Kinnear) si incontrano e scontrano in dialoghi insaziabilmente insensati ed irriverenti.

E’ la storia d’un uomo che, rassegnato ad una vita ordinaria pur credendo di possedere delle abilità fuori dal comune, non nasconde, consapevolmente, un animo affatto incline ai rapporti umani – interessante la parola composta inglese “people person”, che rende in fretta il concetto e viene più volte richiamata nel film. Così, quando Bertram, dentista misantropo ed innegabilmente frustrato, subisce uno sfortunato intervento chirurgico dopo aver ingerito un leggero quantitativo di lassativo, il suo mondo si ritrova improvvisamente ad esser catapultato nel caos: dopo un’esperienza pre-morte di ben sette minuti, difatti, egli comincia a vedere dei fantasmi e a comprendere che questi desiderano ardentemente che lui, unica persona vivente in grado di farlo, termini per loro tutto ciò che la morte lascia, inevitabilmente, irrisolto. Tra le apparizioni, va citata quella di Frank, il più insistente: è proprio con la sua richiesta di porre fine al possibile matrimonio tra sua moglie (l’ammirevole Téa Leoni di Hollywood Ending), ovviamente vedova, ed il nuovo, a suo giudizio inadatto fidanzato di lei, che Bertram sarà partecipe di un inconsueto triangolo amoroso.

Gioca “pulito”, Ghost Town. Gioca sulla pretesa del rimanere commedia pur volendo essere qualcosa di più, sul fascino dei personaggi, sulla loro incredibile banalità ed unicità allo stesso tempo, sugli sfondi di una metropoli classica, benestante e, nonostante tutto, accessibile anche agli occhi del visitatore di passaggio. Punta anche sulla durata (poco più dei 90′ canonici), usata veramente bene, sequenza per sequenza, mai troppo lentamente, mai troppo di fretta, mai troppo seria o eccessivamente comica. E, dulcis in fundo, gioca con l’umiltà dell’essere un film fatto di illusioni, sogni e speranze molto, inverosimilmente, reali.

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