In giapponese, Tonari No Totoro. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, Il mio vicino Totoro è la versione italiana del piccolo capolavoro d’animazione nipponica, firmato Hayao Miyazaki ed originariamente datato 1988. Il quarto lungometraggio di quella che sarà una lunga serie di pellicole di successo (Nausicaä della valle del vento, La città incantata, Il castello errante di Howl) per il regista di serie televisive come Lupin III e Conan il ragazzo del futuro. Finalmente riadattato nella nostra lingua per il grande schermo, dopo un imbarazzante silenzio durato ben 21 anni, il film è distribuito da Lucky Red che, a partire dal 2005, aveva già iniziato a curare le versioni italiane degli acclamati anime dello Studio Ghibli.
Quest’ultimo, fondato dallo stesso Miyazaki nel lontano 1985, porta curiosamente il nome che, durante la Seconda Guerra Mondiale, alcuni piloti italiani diedero ad un vento caldo del Sahara.
Se il messaggio era quello di portare innovazione nel mondo dell’animazione giapponese, da noi sin troppo spesso limitato al solo home video, Il mio vicino Totoro ne è, senza alcun dubbio, testimonianza diretta.
Nonostante lo scarso successo ottenuto al botteghino, Totoro (che in Italia è uscito la scorsa settimana in 58 sale, nella speranza che gli appassionati di cinema d’essai ne gratificassero lo sforzo di produzione) è ormai divenuto il nuovo logo dello Studio Ghibli e, grazie all’idea di un fabbricante di peluche, ha visto i suoi gadget conquistare il Giappone e la critica infervorarsi per la delicatezza di un personaggio nato dall’incredibile incrocio tra una talpa, un orso ed un procione.
Siamo a Tokyo (città natale del regista), negli anni cinquanta. Satsuki e Mei sono due sorelle (undicenne la prima e parecchio più piccola la seconda) dall’indole dolce ed esuberante. Assieme al padre si sono appena trasferite in un villaggio di campagna, in una nuova casa tutta in legno, un po’ malmessa ma splendidamente ristrutturabile e, soprattutto, a poca distanza dall’ospedale ove la loro madre è da tempo ricoverata. Alle prese con la pulizia e la manutenzione della dimora, le due bambine andranno incontro alla scoperta di antiche creature invisibili agli occhi adulti (citando Neverland – Un sogno per la vita, per vedere le fate è necessario credervi). E questo avverrà per i “nerini del buio”, spiritelli della fuliggine (i medesimi ripresi ne La città incantata), così come per Totoro (Totoru, in giapponese, significa troll, ma Mei ne storpierà involontariamente il nome), grosso e sempre addormentato abitante di un grande albero di canfora del bosco del villaggio. Insieme a lui il Gattobus, un autobus morbidissimo e dal muso di gatto, con due topolini che ne illuminano il riquadro adibito a riportarne la destinazione.
Con Il mio vicino Totoro, Miyazaki racconta, ancora una volta, una storia destinata ad un pubblico infantile, ma che finisce con l’adattarsi pienamente anche ai gusti degli adulti, casuali accompagnatori a loro volta rapiti da una tenerezza ed una rilassatezza di fondo che animano così piacevolmente la pellicola. E, servendosi di una sceneggiatura dai dialoghi appositamente asciutti e pur tuttavia proporzionali ad una bellezza visiva semplice e al contempo impressionante, crea un’atmosfera carica di quell’ingenua curiosità mai noiosa o ripetitiva per la quale tutti noi, almeno una volta nella nostra vita, siamo passati, portandoci a riprendere in considerazione l’idea di tornare su quei passi e ad emozionarci per quel soffice ammasso di pelo che è Totoro, simbolo di crescita e maturazione.
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