Jacques Audiard

—- Nota del caporedattore: approfitto di questo splendido pezzo, per dare il benvenuto al blog del nostro valente collaboratore Stefano Miraglia. Lo trovate qui e nei permanent link di Binario Loco. Well done, Stefano!  😉  —-

Alla fine di Un prophète di Jacques Audiard mi sono sentito a metà, dentro e fuori l’emotività scenica di questa prison novel corsa. Piacevolmente dentro la cella infestata, dove la vittima del protagonista riappare, diventa confidente, gira su se stesso in preda a convulsioni, sotto una luce molto sporca, da video musicale anni ‘90. Fantasmi, il cinema reale è fatto di fantasmi (come noi),  in questo caso ottimo artificio narrativo per chi, fortunatamente, non sa che cosa sia la prigionia ma deve socialmente raccontarla e non vuole che il suo lavoro sia realistico (quindi falso) per tutta la durata del film. E bisognerebbe ringraziarlo, Audiard.

Grazie per il meraviglioso titolo e per la scena a cui si accorda, perchè cerca – forse – di riprendere strade narrative, sintassi visive, che la maggior parte dei cineasti relegano solo ai loro colleghi più avventurosi (e quindi dimenticati a livello produttivo). E mi riferisco a Lynch, ovviamente. E mi viene in mente l’ultimo Resnais, altro magnifico esempio di rotta di navigazione sempre trasversale, meravigliosamente inquietante ed accomodante allo stesso tempo. Eppure tutto questo non basta a farmi sentire dentro il film.  Ritorno freddamente fuori dalla finzione scenica quando sento lo score orchestrale che avanza come in un qualsiasi film statunitense dello stesso genere. Ma non voglio scavare tra i ricordi, non voglio ritrovare gli altri difetti che mi avevano mostrato l’uscita. Voglio rientrare nel trasporto cinematografico.

Rientro totalmente, guardando The Time That Remains, di Elia Suleiman; ogni volta che ripenserò a questo film, la mia mente dovrà per prima cosa attraversare il ricordo della scena iniziale in taxi, con quella frase che chiude la scena introduttiva, quel “dove sono io?”. In quel momento ho immaginato un uomo che lotta contro la storia, la vita, il cinema odierno, un uomo che cerca di far urlare il mondo (il suo, il nostro) “dove sono io?!!”, ma nel momento in cui riesce a farlo dire a tutti, la frase esce piano, quasi sottovoce, passivamente. Zeitgeist, mi viene da dire. Maledizione.

Il film di Suleiman raggiunge l’emotività di un certo modo di fare cinema (credo) un po’ perduto: la narrazione vitale (penso subito, non saprei spiegare perchè, a Truffaut, poi a certi film di Moretti) e allo stesso tempo la descrizione visiva calma (flemmatica, direi, se si potesse escludere la pigrizia dal significato figurativo): grazie a quest’ultima, solo alla fine ho provato un sentimento d’insieme, l’esistenza di un tutto, di un film solido – perchè è alla fine della pellicola che bisogna essere/arrivare solidi, concreti, e non all’inizio. The Time That Remains non è solo un film sulla questione arabo-israeliana, è anche un esempio di opera per quelli che combattono armati di un linguaggio (il cinema) – che non ci è mai appartenuto completamente – per vivere il tempo che resta, in un mondo che è sempre stato nostro.

The Time That Remains

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