lo-spazio-bianco-2Esistono momenti di sospensione in un limbo che non può, non vuole e non deve essere qualcosa di diverso del segno di indefinitezza, dell’assenza di senso e di significato. Uno spazio bianco, nero, grigio che risulta non intellegibile, non decifrabile, troppo compresso o insopportabilmente espanso. Uno spazio che non ha misura, che non ha tempo o che forse è il tempo, è la misura. Come il tratto che precede l’alba, in cui già c’è luce ma ancora non appare il sole. In cui il cielo è grigio, bianco ma ancora nero. Appunto. Come il tempo dell’attesa che vive la protagonista del film della Comencini.

Una donna – Margherita Buy nel film – che dopo aver partorito prematuramente attende, per decine di interminabili giorni, lo sviluppo del feto in un incubatrice dalla quale uscirà vivo, morto o afflitto da un danno non riscontrabile ancora nel piccolo corpo. L’incubatrice potrebbe diventare una bara. Dispensatrice di incubi, appunto.
Il tempo passato davanti a questa piccola Sfinge tecnologica, altera i normali ritmi esistenziali, li svuota del senso precedente per riempirli imperiosamente solo del proprio significato. Che però è disumano, è mortifero, è il tempo della non azione, della non vita, l’attimo eterno dell’attesa. Voglio però andare oltre i tanti discorsi sulla scelta della maternità, sulla bravura della Buy e su una Napoli non oleografica, discorsi già fatti in abbondanza in occasione dei tanti incontri con la regista e con l’attrice. Anche perchè, pantografando la misura aurea del film, il senso dell’opera trascende il tema della maternità, facendolo coincidere con l’eistenza tutta.

In fondo cos’è, se non uno spazio bianco, quello che stiamo vivendo?

Sospeso tra la nascita e la morte, nell’attesa della morte, quasi nell’invocarla, temendola, per sfuggire allo stillicidio sfibrante dell’attesa? La nostra vita è uno spazio bianco e l’uscita è dall’incubatrice vita direttamente in una incubatrice di zinco e di legno. Ed allora, nel parallelo, ancora più inquietante risulta domandarsi chi, fuori dalla nostra incubatrice di plastica (un po’ come la cupola in cui vive Truman) ci stà guardando, infila le mani in apposite aperture per manipolare il nostro corso, ed attende. Non nel dubbio tra vita e morte, ma solo vuole accertarsi che la nostre fine avvenga. Un convalidatore e nulla più.

Insomma, un film elegante, sospeso, leggero a suo modo, ben interpretato ma che forse non ha il coraggio di uscire dai soliti discorsi sulla donna, sugli uomini, sulla maternità, la paternità, il coraggio di vivere. E magari puntare più in alto, su un tema dell’attesa non della vita (che riguarda tutte le madri e l’altro spazio bianco, quello della gravidanza) ma della morte, che riguarda tutti gli esseri umani.

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