Bruno

A distanza di tre anni dalla piccola “rivoluzione” di Borat, che portava sui grandi schermi di tutto il mondo un personaggio capace di unire i canoni della comicità demenziale e irriverente al linguaggio della candid camera, Sacha Baron Cohen torna a tastare lo stesso terreno. Ma il popolare comico sa che ripetersi in toto non giova mai a nessuna opera d’arte: ecco allora che Brüno cambia sensibilmente il linguaggio (tecnico) utilizzato e soprattutto tenta di spostare ancora più in alto l’asticella del confine tra buon gusto ed eccesso.

Se Borat vi era sembrato sopra le righe o persino volgare, state ben alla larga da Brüno: Brüno è oltre, Brüno osa dove raramente (forse mai) si era giunti al cinema in fatto di comicità, Brüno ridefinisce ciò che è politicamente scorretto, esagerato, impronunciabile, demenziale. Eppure – nonostante in tanti potrebbero dissentire – non è mai eccessivamente volgare o per lo meno si appropria di una volgarità non fine a se stessa e non “gratuita” nell’ambito del linguaggio filmico scelto.

Mettiamo quindi subito in chiaro che Brüno non è un film per tutti: sinceramente non potremmo biasimare chi ci venisse a dire che il film è disturbante o addirittura offensivo. L’avere un senso della moralità o del politicamente corretto non propriamente spiccati è uno dei requisiti per apprezzare appieno un’opera comunque geniale e divertentissima, una comicità di pancia non banale e scene da cadere dalla poltrona dalle risate.

Nonostante Cohen interpreti stavolta un giornalista di moda austriaco omosessuale, che va a “diffondere” il suo verbo sullo stile e sulla necessità di una vita alla moda, non si pensi che a essere parodiato a mo’ di caricatura sia solo il mondo della moda gay. Come al solito ce n’è per tutti, dai politici fino ai soliti bifolchi degli stati americani del sud e del mid-west (quelli già abbondantemente ridicolizzati da Borat).

Ciò che però sembra funzionare meno rispetto al passato è il fatto che questo spostarsi oltre ogni limite ed eccesso mette a repentaglio la sospensione d’incredulità di cui si ha bisogno di fronte ad un mockumentary: se con Borat era semplice credere al fatto che tante scene fossero state davvero girate all’insaputa di coloro che vi erano coinvolti, l’espediente linguistico qui cade completamente e si percepisce con un certo disagio di essere di fronte a tante pantomime e sceneggiate organizzate, messe una di fila all’altra.

Tutto ciò non impedisce di godersi una comicità devastante che, se rallenta nella parte centrale, sa regalare un esordio e soprattutto un finale (con due scene imperdibili e grandiose di cui non vogliamo accennare nulla appositamente) che da soli valgono il prezzo del biglietto. E uscendo dalla sala ci si rammaricherà solamente del fatto che il film duri appena un’ora e un quarto.

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