Quando si è di fronte ad una trasposizione cinematografica di un’opera letteraria (fatto peraltro sempre più comune) si dovrebbe evitare di cercare il confronto ad ogni costo con l’originale. Non foss’altro per il fatto che due media diversi non possono che dar vita a prodotti diversi. Ma si può davvero accettare questo discorso anche di fronte ad un classico, un’opera letta da tutti (o quasi), che ha segnato profondamente e inevitabilmente chiunque l’abbia apprezzata? Sinceramente ci sentiamo di rispondere di no e di invocare un po’ più di rispetto per un capolavoro come quello di Wilde.
E invece la moda dello stile dark colpisce a occhi chiusi anche il lavoro di Oliver Parker il quale – dopo aver adattato per il grande schermo diverse opere wildiane (come Un marito ideale e L’importanza di chiamarsi Ernesto), potendo contare su budget ridotti e dando vita a film anche discreti – si è ritrovato tra le mani la possibilità di mettersi alla prova con il lavoro più noto dello scrittore inglese e ha scelto di seguire il mainstream, dando alle masse quei colori cupi e quelle atmosfere tormentate che tanto vanno di moda (al cinema e non solo). Si è dimenticato però che ciò che ha resto il romanzo eterno è stato ben altro.
Il suo Dorian Gray è poco più che un filmetto mediocre con diverse pretese di spettacolarità, inutilmente e pomposamente dark dalla prima all’ultima scena, fiaccato per giunta da evidenti ristrettezze di budget (producono due piccole case britanniche) che rendono certi effetti speciali approssimativi e grossolani, nonché dalla scelta di un attore protagonista incapace di rendere sfaccettato il suo personaggio. Non che l’intuizione di fare dell’adattamento un film dark sia sbagliata in toto: il romanzo di Wilde è certamente un racconto dark dalla metà in poi, ma ciò che precede quelle atmosfere è decisamente più importante e manca completamente nel film di Parker.
Quest’orientamento smaccatamente commerciale è tanto più fastidioso proprio se si considera ciò che manca nella prima parte del film: dei dialoghi fulminanti tra Dorian, Lord Henry e il pittore Basil non c’è nemmeno l’ombra (o quasi), tante celeberrime battute (rimaste arcinote come aforismi wildiani) scompaiono senza motivo, quell’atmosfera rilassata e gonfia di estetismo è inspiegabilmente sostituita da toni cupi che rendono il film piatto, facendo infatti mancare quella climax che nel romanzo si otteneva proprio alternando stili diversi. Un patrimonio sprecato.
Deprecabile infine la scelta di rendere la figura di Lord Henry (interpretato da un comunque bravo Colin Firth, il migliore del cast) un personaggio malvagio, impaurito e violento: se è certamente la sua filosofia a “corrompere” l’anima pura del giovane Dorian, tale interpretazione della sua figura è tutta frutto della fantasia di Parker. Voto scarso anche per la prova di Ben Barnes, che veste i panni di Dorian montando sul viso la stessa espressione di fissità (occhio sbarrato, bocca socchiusa, sguardo da innocentino) per un’ora e quaranta. La recitazione è qualcos’altro, così come Il ritratto di Dorian Gray è ben altro da questo filmetto.
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