Alessio Lega - 3 dicembre 2009Il 3 dicembre, ovvero giovedì, alle ore 18.00 – Casa della memoria e della storia in via S.Francesco di Sales, Alessio Lega accompagnato dal fido Rocco Marchi cantaerà e racconterà di Volodja Vyssotskij, il grande poeta-musicante russo degli anni ’70.

Sarà  presente anche Sergio S. Sacchi, massimo esperto e grande divulgatore musicale, già  curatore, fra l’altro, dello storico CD “Il volo di Volodja” e del recente libro “Volodja” (ed. Giunti).

Lo spettacolo racconterà  Volodja attraverso le sue canzoni in versione italiana (negli adattamenti di Sacchi e di Alessio stesso).

Cantando, cantando il discorso si allargherà  a tutto il fenomeno dei cantautori dissidenti dell’Europa dell’est: Okudzava, Kryl, Kaczmarski, ecc. alla ricerca delle radici eternamente ribelli della poesia del popolo.

La serata è nell’ambito della rassegna

DISSIDENZE PROFONDE

Tarkovskij, Solzhenitsyn, Vysotskij, organizzata dall’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij.

In allegato un ritratto di Volodja Vyssotskij apparso su A rivista anarchica e poi inserito nel volume “Canta che non ti passa” (ed. Stampa Alternativa).

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Volodja esiste.

È un reticolato di storie d’amore quello che vi voglio raccontare per avvicinare l’aura di leggenda che circonda vita e memori del principe dei bardi russi Vladimir Vysotskij.

L’autore scontò sulla sua pelle un’ostilità cupa, uno strato di silenzio terribile quanto quello che subì il suo maestro Bulat Okudzava. Rispetto a Bulat però, Vladimir era molto meno caratterialmente corazzato per muoversi nel mare ghiacciato in cui la vita lo cacciò. Okudzava era ironico, sfuggente, la sua tensione lirica volava spanne sopra il fango. L’amarezza era parte della sua filosofia di vita e paradossalmente gli fu più facile conviverci.
Vysotskij era un lottatore, un disperato, un attore che si appassionava a ogni personaggio che si immedesimava in ogni dramma della vita per sfuggire a sé stesso, al proprio uomo nero, che della vita trangugiava i calici più amari, che voleva restare in piedi a tutti i costi sulle macerie, in mezzo al disastro, affrontando la tempesta a capo scoperto. Era un piccolo principe, un bambino, un soldato della poesia. Una sporca guerra mai dichiarata – ma che in Russia fra suicidati, fucilati, morti in campo di concentramento, internati nelle cliniche psichiatriche ha molte vittime illustri e no – il potere combatte sempre contro la poesia, contro la follia creativa.
Volodja per temperamento più che per ideologia fu sempre in prima linea. Era un uomo affamato di vita e votato alla sventura. Visse poco e male, fu alcolista e morfinomane, morì a quarantadue anni.
“Canta ancora”, disse Okudzava scatenando quell’onda d’amore che l’ha reso conosciuto, se non noto, anche in Italia.

Sergio S. Sacchi, una delle anime più colte del club Tenco di Sanremo, cui Okudzava aveva partecipato nel 1985, tornò a salutarlo in una successiva apparizione di Bulat a Torino. In quell’occasione si fece autografare un libro uscito nel nostro paese nel ’72: Canzoni russe di protesta, una fondamentale antologia coi testi tradotti dei 3 bardi Okudzava, Galic e Vysotskij.
Okudzava molto sorpreso che un libro del genere esistesse – in Unione Sovietica sarebbe stato impensabile – mise da parte la sua proverbiale discrezione – “Si diventa molto discreti quando si hanno tutti i fucilati e deportati che ha avuto Bulat in famiglia” ci siamo detti con Sergio! – e vi scrisse sopra una commovente dedica, anche a nome dei due poeti morti, ma ancora vivi su quel libro insieme a lui. Mi racconta Sergio “Lui era l’unico rimasto vivo e parlava anche a nome degli altri due. La cosa mi ha violentemente toccato. Nascono sempre da momenti d’amore le cose. Quella sera sono partito e ho detto: cazzo, devo far conoscere Vysotskij”.
Partì dunque all’approfondimento di questo personaggio impossibile. Vero figlio della Russia: il folle che scompigliava l’idea di rigore immutabile e impenetrabile che questo immenso paese voleva dare di sé.

Volodja era figlio di un militare e di un’interprete di tedesco, era nato in uno dei periodi più tremendi della storia sovietica, quel 1936 che inaugura le grandi purghe e l’epoca delle più feroci epurazioni, le stesse fucilazioni e internamenti che distruggeranno per sempre la famiglia e la felicità di Okudzava.
Fu bambino durante la guerra e adolescente nel clima falso e miserabilmente trionfalistico dell’immediato dopoguerra in cui era portato a passeggio dal padre coperto di medaglie. La Russia si promuoveva a superpotenza al prezzo della fame e dello sfruttamento del suo popolo. Volodja era già un alcolizzato di tredici anni. A venti conosceva il gergo della malavita e i codici dei bassifondi moscoviti e cercava di dare un grande futuro alla sua vocazione teatrale.
E teatrante fu, fra i più grandi della sua epoca, nel teatro Taganka di Jury Liubimov, un teatro paragonabile per importanza al Piccolo di Milano negli anni di Strehler. Di quel teatro Vysotskij fu il primo attore fino alla morte interpretando i tanti ruoli fondamentali nel Pugaciov di Esenin, nel Galileo di Brecht, nel giardino dei ciliegi di Checov e infine nel celebratissimo Amleto, nei cui panni Volodja girò l’Europa intera.
La sua faccia divenne popolare in Russia per una serie di mediocri film che lo confinavano nel solo ruolo del cattivo, ma la sua voce popolare lo era già da un pezzo. Dischi in patria gliene hanno fatti fare ben pochi, comunque in numero del tutto inadeguato alla sua fama, un buon numero delle sue migliori canzoni le ha incise per il mercato estero in Francia o in Canada.
Ma sono state le cassette registrate in incontri privati o nei pubblici concerti, vendute sottobanco e riprodotte – di copia clandestina in copia clandestina – a raggiungere ogni sperduto angolo del suo immenso paese e ad essere portate persino dai cosmonauti in orbita.

Le canzoni di Volodja, come quelle di Brel, si nutrono di interpretazione, ne sono agitate e rese incandescenti. Volodja è un autore che può risultare un po’ arcano e grezzo al gusto intellettualino occidentale, ma sconvolge per la plebea varietà del suo entusiasmo.
I suoi eroi non sono solo i marginali generici, i bambini, i matti, i poeti e gli artisti trasformati dall’ennesima guerra in soldati che affollano le canzoni d’autore – anche quelle di Okudzava a lui tanto vicino. Oltre e più che da questi, la curiosità del popolano Vysotskij è attratta verso ogni modo estremo di vivere: numerosissime le sue canzoni sugli sportivi corridori, saltatori, lanciatori di pesi, pugili, alpinisti.

Certo tutte figure che abbondano nella storia della canzone, ma sempre come metafore consapevoli di uan riflessione, di un atteggiamento di una lotta. Volodja ha l’entusiasmo selvaggio dell’immedesimazione fino allo spasimo e se si trae una morale dai suoi racconti è sempre una morale a posteriori. Persino le celebratissime canzoni del ciclo della guerra non si possono in alcun modo definire canzoni antimilitaristi, ma son proprio canzoni sulla guerra, quando non addirittura canzoni della guerra. Persino il punto di vista dello stesso Bulat Okudzava appare più soffuso su questo tema, cosa che appare paradossale visto che Bulat in guerra c’è stato, mentre Volodja essendo nato nel ’38 no. Ma Bulat in effetti scrive della propria guerra, la vede attraverso i suoi occhi, la racconta con la sua voce che non è quella di nessun altro – e, a scanso di equivoci diciamo anche che attinge vette di poesia più alte – mentre Visotskji si mette nella pelle e nei panni di molti e diversi soldati e se alla fine è ben percepibile la tragedia nella sua immensità lo è attraverso l’insieme corale di questo catalogo di soldati che ci mette a disposizione.
Anche in queste canzoni terribili l’ironia è presente, certo, ma anche l’esaltazione e l’eroismo. La sua poetica tutta è come dominata da uno strano esistenzialismo forsennato, da un presagio cupo e vitalissimo al contempo. Visotskji è un poeta dalle forme spesso curate, ma tutto il suo atteggiamento interpretativo è rock e forse è per questo che ha esercitato un vero richiamo delle folle, anche se i mezzi che gli sono stati concessi hanno reso impossibile la comunione.

Visotyskji si brucia in pochi anni. Non è solo un alcolizzato che beve regolarmente, a intervalli brevi o larghi si getta come un bolide nell’autostrada dell’autodistruzione, quando lo assale una crisi comincia a bere, scompare alla vista del mondo, si perde in luoghi sordidi, e sono sei sette litri di vodka al giorno, per due o tre giorni di oblio, di vomito, di sangue, di morte.
La moglie Marina Vlady – grande attrice francese di origine russa che lui ha prima sognato adgli schermi poi è riuscito a conquistare e sposare – tenta di tutto per strapparlo alla sua disperata furia autodistruttiva e forse riesce a guadagnargli qualche anno mettendo a repentaglio la propria stessa salute.
Ma nulla si può fare contro una tale ansia divorante nutrita dalla condizione di poeta fantasma in cui il governo lo costringe, tutti i visti le suppliche i viaggi negati e qualche volta concessi, cento volte gli allungano la vita e mille gliela accorciano. La fine giunge il 25 agosto del 1980, durante le olimpiadi di Mosca. La notizia è occultata goffamente, ma il suo corteo funebre diventa la manifestazione spontanea più gigantesca di tutta la storia sovietica.

Ecco cosa porta Sergio Sacchi quando una dozzina d’anni dopo riesce a convincere il Premio Tenco a dedicare l’intera manifestazione a Visotskji. L’amore ha un potere immenso, frenetico, quell’anno non si parlerà d’altro. Gli artisti italiani solitamente così individualisticamente poco inclini ai mischiamenti – Guccini, Flaco Biondini, Capossela, Branduardi, Vecchjoni, Finardi, Ligabue, Giorgio Conte, Paolo Rossi, Milva – incideranno un intero disco Il volo di Volodja che resta un’operazione esemplare e unica al mondo nel suo genere. Viene pubblicata con lo stesso titolo una biografia/antologia accompagnata da un CD che compila il meglio dalla voce stessa dell’autore. La serata della rassegna, quasi interamente all’insegna di Vladimir, viene trasmessa in prima serata. La presenza di Marina Vlady garantisce un marchio di commozione e onestà che tengono a bada l’incombere di quel brutto monumento che i genitori di Vladimir avevano voluto per il loro figlio trasformato – da morto – in un eroe del realismo socialista.

Vent’anni prima un grande slavofilo, a suo rischio e pericolo esportava i nastrini segreti e diffusissimi delle canzoni di Okudzava, Visotskji, Galic. Si chiamava Pietro Zveteremich e non era nuovo a operazioni di questo genere: era stato lui che in accordo con Pasternak aveva prelevato e trafugato il suo capolavoro “il dottor Zivago”. “Arrivederci al giorno della mia fucilazione” lo aveva salutato il futuro premio Nobel.

Il coraggio, la foga di vivere sono passioni forti e generano amore e l’amore può tutto. Il libro di Zveteremich passò dalle mani di Sergio Sacchi a quelle di Bulat Okudzava. Il resto ve l’ho raccontato.

“Non mi lasciano esistere” aveva detto affarnto Volodja, riferendosi alla burocrazia che impediva i suoi recital ponendolo d’ufficio “in malattia”, che negava la pubblicazione al suo più insignificante verso, che dimenticava di stampare i suoi dischi per decenni interi.

Chi è che oggi non esiste?

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