Di questo (giustamente) pluripremiato diamante di Jacques Audiard si potrebbe scrivere, parafrasando il sommo Dante, “Galeotto fu il libro e chi lo lesse” ma anche, citando Nietzsche: “Ciò che non uccide, fortifica”. “Un  profeta”, infatti (come bisognerebbe tradurre dall’originale francese, al posto del fuorviante italiano “Il”), è colui che, superate mille dolorose prove, è in grado di comunicare con chiunque nella sua lingua (sarà la forza del protagonista, l’asso nella manica che nessuno, intorno a lui, è in grado di prevedere) e, come un grande maestro di scacchi, agisce prevedendo decine di mosse in anticipo.

Il paragone con “The Godfather”, osato dai più, mi sembra abbastanza fuori luogo. Qui, infatti, siamo più dalle parti di “Old Boy”. Il sangue scorre, infatti (specialmente nel primo rullo), a fiumi e ciò che supera qualsiasi livello di tolleranza, mettendo a dura prova la resistenza dello spettatore, è il sado-masochismo, emblematizzato dal beckettiano rapporto vittima-carnefice instauratosi tra il protagonista, un favoloso Tahar Rahim (classe 1981. E’ nata una stella) e l’anziano, corrotto, mentore, interpretato mirabilmente da Niels Arestrup. Il 61enne attore francese, da noi praticamente sconosciuto, nonostante la lunga carriera sul grande e piccolo schermo, ha rivelato, superata abbondantemente la soglia della maturità, un talento fuori dal comune.

Partendo, infatti, da melo di valore trascurabile come l’inutile “Meeting Venus”, è giunto, negli ultimi cinque anni, ad interpretazioni decisamente degne di nota come il ruolo di Robert Seyr nello splendido “De battre mon coeur s’est arrêté” (in Italia, “Tutti i battiti del mio cuore”) dello stesso Audiard, probabilmente la vetta massima raggiunta (sino ad oggi) dal talentoso Romain Duris e quest’ultima, in cui si cala – per Audiard – nei sudici panni del mefistofelico e, a tratti, quasi commovente (nella sua spietata, meticolosa, chirurgica ferocia senza scrupoli) boss ergastolano “tanto bolso quanto corso”César Luciani (un nome, un programma) che trasformerà, irreversibilmente, la vita del giovanissimo analfabeta Malik El Djebena, conducendolo – per mano – lungo il sentiero di sola andata per l’inferno.

“Il profeta” avrebbe meritato, senza esitazione, l’Oscar per il Miglior Film Straniero, cui era stato – ovviamente – candidato ma gli è stato preferito l’iberico-argentino “El secreto de sus ojos” di Juan José Campanella, ancora inedito in Italia (data uscita prevista: 4 giugno).

L’impressione che si ha, una volta lasciata la sala, è quella (nonostante il tema durissimo e le inesorabili scene di violenza) di aver trascorso le ultime ore in una cattedrale. Se la settima arte deve, infatti, farci sognare e riflettere, siamo di fronte ad una prova assoluta: questo film è grandissimo cinema. Una visione assolutamente da non perdere.

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