Dalle operaie della Ford, nell’Inghilterra del ’68, la prima grande rivendicazione salariale
Più che un film, un manifesto. Attualissimo anche per noi, qui ed ora. Questa la sollecitazione che proviene da “We want sex” (Made in Dagenham), il film che rende omaggio alla prima grande rivendicazione salariale che, nel 1968, porterà un agguerrito gruppo di operaie ad ottenere dal governo la parità di retribuzione con gli uomini. Siamo a Dagenham, nel cuore industriale dell’Essex (Inghilterra): la fabbrica della Ford dà lavoro a 55mila operai, che costruiscono automobili, ed a 187 donne, addette alla cucitura dei sedili delle auto in un’ala della fabbrica che ormai cade a pezzi.
Sottopagate rispetto agli uomini e costrette a lavorare in condizioni insostenibili, le lavoratrici perdono definitivamente la pazienza quando vengono ri-classificate professionalmente come “operaie non qualificate”. Grinta, unità e pragmatismo (tutti elementi che oggi, ahinoi, spesso scarseggiano) costituiscono il motore di questa battaglia, il cui scopo sarà quello di ottenere un diritto in apparenza evidente: la parità, non contro qualcuno, ma per se stesse e per il proprio lavoro.
Dopo aver scoperto che i sindacalisti che le rappresentano sono quasi tutti in mala fede, con grande coraggio, buonsenso ed ironia, queste madri di famiglia inizialmente prese poco sul serio, riescono a farsi ascoltare dalla comunità locale, dai capi d’azienda e dal governo. Rita O’Grady, la protagonista del film – un personaggio di fantasia che diventa “leader per caso” – sarà un’avversaria non facile per gli oppositori maschi e, insieme alle colleghe Sandra, Eileen, Brenda, Monica e Connie, guiderà lo sciopero delle operaie, che paralizzerà la produzione, ponendo le basi per la legge sulla parità di retribuzione e conquistando il rispetto e l’alleanza del ministro del lavoro Barbara Castle per affrontare il Parlamento.
“È una storia che andava assolutamente raccontata – afferma Sally Hawkins, l’attrice che dà forza e simpatia alla protagonista della vicenda – L’uguaglianza femminile, in realtà, è qualcosa per cui ancora dobbiamo combattere. Anche nell’industria del cinema sono gli uomini a farla da padroni, ed è sempre stato così. È frustrante. Il messaggio del film è di insistere sempre, di accettare sempre le sfide: come ci hanno insegnato le donne di Dagenham, è importante lottare per ciò in cui si crede, anche quando ci fa paura”.
L’abile regia di Nigel Cole (chi non ricorda L’erba di Grace?) intreccia storia sociale, satira di costume, impegno politico, dilemmi psicologici, utilizzando al meglio un superbo cast dove la componente femminile sovrasta quella maschile sia per lo spessore dei personaggi che per le prove attoriali, con la ovvia eccezione di Bob Hoskins, nel ruolo del delegato sindacale dello stabilimento di Dagenham, complice divertito e solidale delle operaie in rivolta.
La già citata Hawkins guida un manipolo di eccellenti attrici, da Rosamund Pike, la moglie ribelle del boss della Ford, fino alla veterana Geraldine James, una donna il cui dolore è pari alla dignità con cui lo porta, passando per Miranda Richardson, che mette in scena una sorta di Thatcher di sinistra per dar vita alla ministra definita dal premier Harold Wilson “il miglior uomo del mio Gabinetto”.
Determinante il ruolo della produttrice Elizabeth Karlsen (Number 9 Films), nonché l’aver allestito il set in Galles in una fabbrica abbandonata che in passato ospitava 5mila persone ed è stata chiusa definitivamente di recente, con un effetto sulla comunità locale simile a quello mostrato nel film. Come racconta il regista, “filmare nella fabbrica è stato utile perché ha fatto capire a tutta la troupe cosa significasse lavorare in ambienti del genere. Abbiamo tentato di ingaggiare quante più comparse locali possibili e ci sono almeno 50 operaie del luogo che figurano tra le scioperanti del film. Le abbiamo anche portate a Londra per le scene a Westminster: si sono divertite molto”.
A completare la forza della pellicola, acconciature, make-up ed abiti coloratissimi, rigorosamente vintage .
Fonte: Noi Donne – Gennaio 2011
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