Rappresentare sul grande schermo il dolore più profondo che si possa immaginare, la perdita di un figlio, non è certo impresa facile. Fra i cineasti che di recente ci hanno provato, con struggimento ed originalità, ricordiamo Nanni Moretti con il film “La stanza del figlio”, vincitore – fra gli altri premi – della Palma d’oro al Festival di Cannes 2001.
Si cimenta nell’impresa anche il regista ed attore John Cameron Mitchell (autore del controverso “Shortbus”) con il complesso ed intenso Rabbit Hole, adattamento cinematografico dell’omonima pièce teatrale di David Lindsay-Abaire, vincitore, con quest’opera, del Premio Pulitzer per il Teatro.
Si respira da subito un’atmosfera rarefatta, oscura, all’interno della quale, a poco a poco, prendono forma le vite, i sentimenti, le storie dei protagonisti, i coniugi Corbett: Becca – una magistrale Nicole Kidman – ed Howie – un solido Aaron Eckart – sono una coppia newyorkese apparentemente come tante altre, che nasconde in realtà il più gravoso dei lutti, la morte del figlio di quattro anni avvenuta in un incidente stradale mentre correva dietro al suo cagnolino.
Per gran parte del film non succede granché: il tempo si dilata e la cinepresa segue una Becca taciturna e distaccata dal mondo circostante, che tenta di riprendere a vivere tenendo a bada con fatica l’onda emotiva che la minaccia ad ogni ricordo, negli angoli un tempo gioiosi della casa, nell’incontro di altre mamme con bambini.
Per sostenersi nella ripresa, Becca gioca tutte le sue carte: prova a riavvicinarsi alla famiglia d’origine poco incline al vero affetto ed al supporto nelle avversità (composta da una madre petulante e logorroica, la grande Dianne Wiest, e da una sorella egoista e un po’ spostata che rimane in cinta per sbaglio), ed accetta suo malgrado, per l’insistenza del marito, di partecipare ad un gruppo di auto-aiuto, salvo scappare quasi subito non trovandovi la necessaria sintonia.
Dal canto suo Howie cerca disperatamente di ritrovare forme concrete di normalizzazione, pensando ad un altro figlio e, per un attimo, immaginando di farsi consolare da un’altra donna. Nel suo vagare, Becca troverà paradossalmente consolazione dall’incontro (non proprio casuale) e dall’amicizia con Jason, il ragazzino amante dei fumetti (Rabbit Hole è infatti la graphic novel inventata da Jason sul tema degli universi paralleli, che affascina e cattura la fantasia di Betta) il quale, dopo aver investito incidentalmente il figlio dei Corbett, è rimasto a sua volta traumatizzato e vive con angoscioso senso di colpa un evento tanto più grande di lui.
Il film procede in modo non-convenzionale, non cerca le lacrime ma evidenza un universo alterato, un vuoto senza fine da riempire, quotidianamente, di gesti semplici e ripetitivi, che fanno andare avanti, ma che nonostante tutto non riescono a curare il male incurabile dell’assenza. Vengono inoltre messi in luce certi piccoli dettagli delle esistenze reali (gli amici che spariscono dopo un lutto, le incomprensioni e le divergenze di coppia sul modo di affrontare le crisi, l’incapacità di reinserirsi nell’ambiente lavorativo) che scavano solchi di autenticità nelle viscere del mondo reale.
Peccato che la Kidman, una delle attrici più belle e affascinanti del panorama cinematografico internazionale, abbia sentito il bisogno di ritoccarsi il viso e le labbra (chi non cede allo star-system che vuole le donne per sempre giovani?): la sofferenza di questa Alice in carne ed ossa, che cade in un luogo vorticoso ed oscuro, dal quale ritroverà la strada del ritorno solo con estrema fatica, non sarebbe stata meno espressiva con qualche piccola ruga in più.
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