Melodramma noir di chirurgica precisione, sublimazione del thriller di stampo hitchcockiano, ritratto grottesco e orrifico del nostro tempo, La pelle che abito evidenzia un intreccio preciso e sofisticato in cui spicca la fotografia algida ed essenziale di Josè Luis Alcaine. La raffinata messinscena, poi, impreziosita da struggenti stacchi musicali, si avvale di una recitazione a tratti asettica degli attori, tra i quali brillano Antonio Banderas e Marisa Paredes, fedeli veterani di Pedro Almodovar, e soprattutto Elena Anaya, conturbante ragazza dalla pelle di seta e nuova musa del sessantenne regista castigliano.
Almodovar, inoltre, non si nega alcune puntatine nell’horror e nel kitsch, soprattutto nella scelta di alcuni coloratissimi costumi, e nell’eccentricità di qualche personaggio (il rapinatore penetrato nella villa), non disdegna le lunghe riprese delle evoluzioni yoga della bella protagonista in un’attillata calzamaglia, ora nera, ora color carne, richiamando alla mente i balletti di Pina Bausch già ammirati nel prologo di Parla con lei.
È curioso rilevare come il geniale autore di Tutto su mia madre e Gli abbracci spezzati, di Volver e La mala educacion, sia riuscito a trattare un soggetto “dermatologico”, basato sul romanzo Tarantola di Thierry Jonquet (stampato in Italia da Einaudi), fino a realizzare una sceneggiatura avvincente e attuale, che se al primo livello di lettura esprime il disagio per una società sempre più condizionata dalla smania di apparire, e dalla conseguente necessità di avvalersi dei correttivi chirurgici, nel sottotesto supera la critica dell’affermazione dell’io attraverso la realizzazione del proprio ideale di bellezza per approdare a un’amara riflessione sulla “gabbia” rappresentata dalla virtualità dell’esistenza e sulla liceità – e sulla morale – dei sempre più massicci interventi della medicina estetica.
Il protagonista della storia, infatti, il noto chirurgo Robert Ledgard (Banderas), uno dei pochi al mondo ad aver praticato il trapianto del volto, dopo l’incidente che ha causato gravissime ustioni alla moglie Gal, avvia degli esperimenti che porterà avanti per più di un decennio, al fine di realizzare in laboratorio un tessuto sintetico simile alla pelle umana, altrettanto sensibile, ma più resistente, che potrebbe impiantare sulla donna. Ma costei non sopporta la propria condizione e il proprio aspetto, così si toglie la vita. Stessa tragica sorte toccherà a Norma (Blanca Suarez), la figlia di Robert, spettatrice del suicidio della madre e sprofondata in un’inguaribile paranoia dopo aver subito un tentativo di stupro da parte del giovane Vicente (Cornet).
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Ritroviamo così il medico, assistito dalla domestica, nonché madre biologica, Marilia (Paredes), nella splendida residenza di El Cigarral, appena fuori Toledo, dove conduce le sue rivoluzionarie ricerche sui tessuti artificiali applicandole a Vera (Anaya), una donna splendida che vive una prigionia ossessivamente video controllata. Ella trascorre il tempo compilando, con le matite per il trucco, una sorta di diario sulle pareti, praticando accuratamente la disciplina yoga, o realizzando strane sculture con plastilina e brandelli di stoffa. Il lungo flashback che giunge quasi a metà film chiarisce in buona parte la complessa natura dei rapporti tra i personaggi della vicenda, peraltro ancora prodiga dei colpi di scena necessari al perdurare della suspense fino all’epilogo.
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2011, dove ha prodotto vasta eco, La pelle che abito è uscito il 2 settembre scorso in Spagna, mentre in Italia è comparso nelle sale cinematografiche a partire dal 23 settembre. Attuando una sorta di rielaborazione del mito di Frankenstein, Almodovar procede per “accumulo”, quasi operando come il folle protagonista del film, il quale, assembla minuziosamente frammenti di epidermide su “un contenitore di sentimenti” quale il corpo umano, praticando esperimenti transgenici senza alcuna remora di carattere etico.
La “cavia” sottoposta a tali arbitrarie modificazioni, porta – non casualmente – il nome di Vera, a voler confermare la necessità di praticare qualunque tipo di ricerca medica allo scopo di rimediare agli incidenti e alle malattie, agli errori genetici e all’inadeguatezza estetica, riproponendo il sogno mai riposto di numerosi studiosi, di migliorare, con ogni mezzo, la specie umana. Quel nome, insomma, ribadisce il diritto dell’individuo ad affermarsi come un’entità reale, abbandonando la sua consistenza virtuale, a prescindere dalla coercizione e dal controllo mediatico che costringe la donna della storia alla perdita di ogni forma di privacy, come in una sorta di reality televisivo.
“La cosa più semplice non sarebbe vivere?”, chiede ancora Vera nelle sequenze finali, riaffermando così la propria identità violata, la propria anima, rimasta intatta anche dopo i sei anni di reclusione a El Cigarral, avendo ormai accettato di “abitare” un altro involucro, un’altra pelle.
[…] non pensare al recente La pelle che abito, film dal quale Il volto dell’altra è molto lontano ma di cui risulta inevitabile […]