Non è così infrequente che l’occhio di un regista europeo si posi sull’America e che ne scaturisca un’opera d’indiscutibile autenticità, spesso un road-movie. È già accaduto con Wim Wenders e il suo struggente Paris, Texas (1984); si ripete ora con This Must Be the Place di Paolo Sorrentino, che ospita nel cast (un caso?) quell’Harry Dean Stanton che ricordiamo enigmatico protagonista della storia confezionata dal cineasta tedesco.
Sarà la differente formazione estetica o culturale, una più articolata visione del mondo, ma è un fatto che la macchina da presa di Sorrentino possiede il dono di conferire anche a luoghi anonimi e apparentemente privi d’interesse come una rimessa di automobili, un’affollata strada cittadina, il lungo bancone di un bar, o il monotono interno di un motel, un plusvalore di originalità e bellezza. Talvolta basta l’inquadratura del protagonista sullo sfondo del vasto cielo americano, maculato di nubi vaporose e regolari, ad accelerare nello spettatore il processo d’identificazione e la sensazione della partecipazione a un viaggio epico nel cuore degli USA, e dentro se stessi.
La fotografia di Luca Bigazzi non fa che confermare le nostre certezze, ma a completare l’atmosfera magica del racconto ci pensa la colonna sonora di Will Oldham e David Byrne (autore anch’egli, come l’intero cast, di un’ottima performance recitativa), che annovera evergreen come The passenger di Iggy Pop, interpretazioni dei The Pieces of Shit (quantomeno originale il nome della band!) di alcune delle varie composizioni di David Byrne, la cui hit, This Must Be the Place, tratta dal mitico album dei Talking Heads Speaking in Tongues (1983) fornisce il titolo – e molto altro – al lungometraggio. “Home is where i want to be” recita l’incipit della canzone, ovvero “la mia casa si trova dove desidero stare”, e ancora: “I’m just an animal looking for a home” cioè “sono solo un animale in cerca di una casa”: versi che descrivono il senso d’inquietudine, l’ansia di raggiungere un obiettivo importante, una meta stabile.
Se nelle precedenti prove (L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore e Il divo) il regista napoletano aveva affidato all’immenso Toni Servillo il compito di materializzare tre maschere, tre personaggi (rispettivamente Tony Pisapia, Titta Di Girolamo e Giulio Andreotti) cristallizzati nel loro travaglio interiore e nella loro unicità, stavolta è Sean Penn, uno degli attori più intensi ed efficaci dell’ultimo decennio (due Oscar ottenuti, e almeno un altro paio sfiorati), a indossare i panni di Cheyenne, una rockstar “in disarmo” dalle sembianze dark ispirate a Robert Smith, il leader del gruppo inglese The Cure.
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Cheyenne è un cinquantenne eccentrico e tormentato, dall’andatura lenta e sincopata, oscillante tra noia e depressione, dalla voce stridula di bambino e dai lunghi silenzi di vecchio, che si trucca accuratamente ogni santo giorno, come un pierrot del terzo millennio, come se stesse per salire da un momento all’altro sul palcoscenico; e che si sente estraneo perfino a casa sua, a Dublino, in una specie di piccolo maniero con interni che di certo hanno procurato più di un orgasmo a qualche architetto di grido, con ampio giardino e piscina, utilizzata solo per giocare alla pelota. Vive nell’agiatezza, grazie ai diritti d’autore delle sue composizioni, con la moglie Jane (Frances McDormand), una donna semplice e affettuosa che l’ama sinceramente, prendendosi inoltre cura di Mary (Eve Hewson), una sedicenne con una madre impazzita che si è completamente dimenticata di lei, e attende invano il ritorno del figlio.
L’agonia del padre che non vedeva da trent’anni lo porta a New York, e al suo capezzale riemergono brandelli di passato che avrebbe preferito rimanessero sepolti: le radici ebraiche, i profondi dissidi familiari, quei sei numeri marchiati sul braccio che rievocano la detenzione ad Auschwitz, le torture e le umiliazioni subite da parte di aguzzini senz’anima. Uno di questi, Aloise Lange, forse è ancora vivo, magari nascosto in qualche remoto villaggio del continente americano.
L’antica ossessione del padre si trasmette così al figlio, che dopo il breve incontro con Mordecai Midler (Judd Hirsch), un agguerrito cacciatore di nazisti, si getta sulle tracce dell’ufficiale delle SS a bordo di un pick-up e in compagnia dell’inseparabile trolley, dentro il quale, insieme agli articoli di prima necessità, trascina con se il carico dei suoi problemi irrisolti. Da New York al Michigan, macinando miglia e miglia, oltrepassando il Midwest, Cheyenne giunge in New Mexico, e da lì ancora nello Utah attraverso incomparabili scenari naturali e paesaggi umani.
Non sveleremo l’epilogo di quest’epopea, ma proprio la galleria d’immagini e personaggi che popolano l’itinerario del protagonista costituisce l’aspetto più stupefacente del film. La sorpresa è costituita dal ritratto della provincia, dei non luoghi che trasudano il perbenismo e il decoro borghese, degli interni delle case dove trovano posto tanti oggetti insulsi, tante piccole cose di pessimo gusto. Sorrentino filma la bellezza anche nelle suppellettili dozzinali dei motel, negli arditi e anonimi viadotti che scavalcano rocce e fiumi, nell’improbabile monumento al pistacchio…
Analoghe sensazioni stimolano i tipi umani che Cheyenne incontra durante il suo viaggio, dalla moglie di Lange, presso la quale si presenta come un suo ex alunno, allo scorbutico Nazi Hunter, dal bambino, il quale gli affida una chitarra acustica chiedendogli di suonare il già menzionato motivo dei Talking Heads, a Robert Plath (Harry Dean Stanton), colui che ha messo le rotelle alle valigie, in sostanza il geniale inventore dei trolley.
Attraverso queste e altre variegate sequenze, talvolta drammatiche, talvolta sconfinanti nel grottesco, l’eroe-protagonista completa la missione affidatagli dal defunto genitore, e nel contempo supera le prove del suo percorso di espiazione (“Guess that this must be the place”). Solo allora potrà riconciliarsi con la vita e con le proprie radici recuperando quell’universo affettivo necessario a ogni essere umano per uscire dalla lenta apatia (agonia) dell’esistenza, e dall’omologazione in cui si è costretti dalla società odierna.
Il tema dell’Olocausto, per concludere, seppur valutabile come una sorta di fondale, sempre degno peraltro del massimo rispetto, ricorda costantemente agli individui di valutare la propria esistenza alla luce della Storia, perché essa è l’unica educazione al coraggio e alla bellezza, e inoltre perché la barbarie è – sempre e ovunque – in agguato, e può essere vinta soprattutto con la cultura, con la tolleranza e con il ricorso alla più splendida forma d’intelligenza di cui l’uomo disponga: l’ironia.
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