Michael Mann

Michael Mann è un mistero. Regista di culto prima e in seguito, soprattutto dopo l’ultimo decennio, divenuto sempre più amato e considerato, resta una curiosa anomalia nel panorama cinematografico mondiale.

La sua “Lezione di Cinema”, tenutasi il 29 Ottobre e moderata da Antonio Monda e Mario Sesti, è stata esaltante e deludente al tempo stesso. Ovviamente esaltante per la concreta possibilità di sentir parlare il regista di Heat, di vedere con lui alcuni tra i tanti momenti memorabili del suo cinema, di sottoporgli domande e curiosità.

Ma deludente perché, resta forte la sensazione, che Mann ci abbia concesso pochissimo del suo modo di lavorare e di pensare il cinema, che sia una regista poco disposta ad aprirsi e a raccontarsi: un mistero, appunto.

Così mentre sullo schermo scorrono immagini da L’Ultimo dei Mohicani, Collateral, Manhunter, (curiosamente assente il recente Public Enemies), tutte caratterizzate da una padronanza stilistica unica, lo sentiamo riaffermare la sua idiosincrasia per il termine “stile”.  Per lui la cosa più importante è il racconto, il concatenamento degli eventi, la verità dei personaggi e delle storie che racconta: è affascinante che un’affermazione del genere venga da uno dei registi più amati proprio in virtù dell’aspetto formale del suo cinema.

Anche sul digitale, con cui il regista ha iniziato a lavorare sin dai tempi di Alì (2001), per arrivare poi ai risultati di Collateral o Miami Vice, Michael Mann racconta poco, accenna alla possibilità di girare con un’illuminazione ridotta ma soprattutto di poter provare e girare con gli attori anche per quattro ore consecutive.

Sembra che Mann abbia completamente superato l’ossessione, comune a molti cineasti, per il “come girare una scena”, per lo stile appunto, e che sia approdato ad un’affascinante capacità di dare per scontato il proprio linguaggio, dove il suo interesse è esclusivamente incentrato sul “cosa raccontare”.

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Non lo affermiamo per riproporre le solite posizioni critiche che vedono Mann come uno degli ultimi classici (al pari di un Eastwood) o come un classico contemporaneo, ma ci sembra inevitabile accostare questa sua particolarità a quella di cineasti come Ford, Mann (Anthony) o Hawks. Registi classici, per i quali l’interesse principale era appunto quello di raccontare storie, convinti che lo stile dovesse essere una conseguenza del racconto, mai il contrario.

In conclusione Michael Mann ha mostrato cinque minuti di Luck, serial tv per HBO che ha da poco ultimato, che già ci sembra summa magnifica di tutto il suo cinema.

L’incontro termina, il regista si allontana con il suo atteggiamento lontano dal glamour e dal divismo: Mann ci appare come un serissimo lavoratore, contraddistinto da una professionalità e da una maniacale dedizione al lavoro, non troppo lontana da quella dei suoi personaggi (siano essi poliziotti, ladri, scassinatori, giornalisti).

Michael Mann, così come il suo personalissimo modo di rapportarsi al cinema, resta un mistero: probabilmente il più affascinante del cinema americano contemporaneo.

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