Il vulcanico Moni Ovadia porta in scena un concerto-spettacolo del 2009, con il sostegno dell’Associazione Stampa Romana, che ha realizzato un progetto educativo che prende il titolo da una delle più belle canzoni di Claudio Lolli, cantautore impegnato attivo negli anni ’70 e ’80: «Ho visto anche degli zingari felici» è un opuscolo rivolto agli operatori dell’informazione, per ricordare loro di abbandonare gli stereotipi e i facili clichè quando si occupano di rom e sinti.

Ma perché allora “Ebrei” oltre a “Zingari”? Stavolta, nella serata del 31 ottobre al Teatro Quirino di Roma, gli ebrei sono in realtà – parole dello stesso Ovadia – un pretesto per tracciare un parallelo tra due delle minoranze più vituperate ma anche più celebrate della storia dei popoli.

E sì, perché il nostro bulgaro di Milano (nato a Plovdiv ma poi trasferitosi nella città ambrosiana), da amante del paradosso qual è, segnala come sia ormai diventato un vezzo per la classe politica più screditata d’occidente – la nostra – andare in pellegrinaggio a Gerusalemme, indossare la kippah d’ordinanza e dichiarare di sentirsi israeliano.

Ecco quindi che l’orrore del genocidio inflitto dal nazismo a tutti i diversi (anche gli omosessuali e perfino i testimoni di Geova finirono nei forni) non ha generato un atteggiamento uniforme nei confronti delle vittime, assegnando alcune di loro ad un girone infernale che non prevede possibilità di redenzione: per dirla con gli autori dello spettacolo, “I due popoli fratelli a lungo hanno marciato fianco  a fianco nella sorte, ma da dopo la persecuzione nazista, le strade si sono divise. Il popolo rom invece molto spesso continua a subire il calvario del pregiudizio, dell’emarginazione”.

Del resto, come ricorda Ovadia, tutti conosciamo oggi il termine Shoah, ma quasi nessuno conosce la parola Porrajmos, il nome dato allo sterminio degli zingari.

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A raccontare tutto questo sul palcoscenico c’è la Moni Ovadia Stage Orchestra, composta da straordinari musicisti rom, che rileggono mirabilmente la cultura musicale dell’Europa orientale: dal cymbalon di Màrian Serban alla fisarmonica di Albert Florian Mihai, con il supporto di Paolo Rocca ai clarinetti e altri fiati, i suonatori di Ovadia uniscono un virtuosismo da spellarsi le mani ad una capacità interpretativa profonda e commovente. Il tutto condito da una certa guasconeria che porta alcuni di loro – così ci ha rivelato Moni dopo lo spettacolo – a passare con tranquilla disinvoltura dai velluti dei maggiori teatri cittadini al meno nobile palcoscenico della strada o di un vagone di metropolitana.

Ovadia lascia spesso la scena alle folgoranti esibizioni degli orchestrali, di quando in quando proponendo splendide canzoni della tradizione popolare zingaresca con il suo canto profondo, talvolta sottolineando con fischi ritmati le performances dei suoi o addirittura esibendosi in un sirtaki quando emergono connessioni elleniche di questa o quella ballata rom.

I brani si intrecciano con le riflessioni di Moni, sempre acuto senza perdere il gusto per lo sberleffo, sferzante verso i potenti e complice quando si rivolge ai deboli: ecco quindi che storie e battute sugli zingari sono in perfetto equilibrio tra la risata e il pianto, ricordando come quello rom sia forse  l’unico popolo al mondo che non è mai andato in guerra contro un altro popolo…

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