Ho percorso in macchina tutta la costa, da Genova all’Olanda, ed ho trovato quello che cercavo nella città del blues, del soul e del rock’n’roll, Le Havre.

Dopo cinque anni di lontananza, il più amato e poetico regista finlandese torna a farci sognare. L’ultimo lungo del visionario Aki Kaurismäki, adorato dai cinefili di tutto il mondo, risale infatti al 2006. Si trattava del capitolo finale della sua trilogia della solitudine, Le luci della sera (i primi due, rispettivamente del 1996 e del 2002, erano Nuvole in viaggio e L’uomo senza passato).

Dopo 19 anni, il regista gira il suo secondo lungo in francese (il primo era Vita da bohème del 1992), presentato in Concorso a Cannes 2011, regalandoci un gioiello di dolcezza e poesia. Poche figure sono, infatti, evocative di un certo classico cinema d’autore “povero” come il lustrascarpe, quel mestiere che non esiste più, a metà tra un mondo scomparso ed una contemporaneità di plastica, fatta di sneaker e stressante, apatica routine.

E’ questo il mestiere dell’anziano Marcel Marx (un cognome casuale?), il protagonista di Miracolo a Le Havre, interpretato dall’attore feticcio di Kaurismäki, il ruvidamente carismatico André Wilms. Povero ma onesto, l’ex scrittore bohémien vive come un monaco zen tra lucido e panno, se si eccettuano le capatine al bar di Claire, lieto epilogo di ogni giornata.

Un pomeriggio, però, il ventunesimo secolo irromperà nella sua vita senza preavviso (“vita è ciò che ci accade mentre facciamo altri programmi”, cantava l’immenso John Lennon) vestendo i panni logori di salsedine del più dolce bambino immigrato della storia del cinema, i cui occhi (in questo risiede la maestria del genio) bastano a rievocare anni di sofferenze e di lotta per la sopravvivenza. Ora Marcel ha una nuova missione: dare una chance ad Idrissa, ritrovare la sua famiglia, farlo giungere a Londra sano e salvo, nonostante la polizia alle calcagna e la mancanza di denaro.

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E’ qui che entrano in gioco tutti gli elementi di questo splendido dipinto ad olio in immagini: il francese dei pescatori, gli scorci del porto, le case vecchie dell’alta Normandia (di una bellezza scarna e diroccata che tocca il cuore), l’iconografica Kati Outinen nei panni della moglie Arletty (non una moglie, la Moglie!), il cane Laika, la panettiera Yvette e dulcis in fundo…un favoloso Jean-Pierre Darroussin che ci regala il più buffo-burbero-irresistibile-perfetto commissario di polizia dai tempi di Peter Sellers. Come si chiamerà mai? Monet, ovviamente!

Un film da non perdere. Ode alla Finlandia.

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