È appena finito il Taormina Film Festival. Quest’anno se ne avverte l’eco non soltanto nella provincia, si sente una sincera nostalgia e una grande attesa per l’anno prossimo. Sul corso alle due di notte intravedo Mario Sesti entusiasta. A Taormina in questa edizione è il pubblico il vero protagonista e ne ha piena percezione, non a caso a fine festival la gente fa la fila per ringraziare il direttore editoriale, si condividono una grande torta e i festeggiamenti per la vittoria dell’Italia.
Centinaia di studenti hanno frequentato il campus, le Tao Class e ora ripartono a malincuore dopo una settimana di sana sospensione onirica. Terry Gilliam, Nadine Labaki, Sergio Castellitto, Matteo Borrelli, Mattia Torre, Costanza Quatriglio, Michele Placido, Jason Lewis, Lisa Edelstein, Carol Alt e Kelly Le Brock, l’omaggio a Theo Angelopulos: un vero e proprio viaggio nel presente, ma anche un tuffo nel cinema passato, un incontro con stili e generi diversi che in questo spazio eterotopico possono coesistere senza soluzione di continuità.
Il binomio cinema – Taormina da troppo tempo era diventato sinonimo di mancanza: mancanza di contatto con la gente che vive in un territorio a cui il cinema dagli anni 50 ad oggi è stato quasi sottratto, mancanza di uno sguardo meno scontato sul cinema prodotto in Sicilia, mancanza di una connessione profonda con l’industria del cinema, il mondo della produzione e della distribuzione.
Un festival che rimarrà nella memoria comune anche per la premiazione della Loren (tornata al festival dopo trent’anni) tra il primo e il secondo tempo di Italia-Germania, e l’omaggio a Carlo Verdone in chiusura, che hanno entusiasmato anche gli animi più distaccati e alieni a questi riti pop.
Arrivo al festival mercoledì mattina, in tempo per l’incontro con due icone del cinema anni 80 Carol Alt e Kelly LeBrock. Oltre che bellissime, due donne sorprendenti, autoironiche; tramite le clip dei loro film ci immergiamo in un’epoca patinata che sembra veramente lontana anni luce da ora. Le due attrici si conoscono da quando facevano le modelle. Kelly Le Brock parla del suo incontro con Gene Wilder ironizzando sull’assegnazione del suo ruolo in La signora in rosso “Stavo flirtando con lui… ecco perché ho avuto il ruolo! (..)”, la Alt dell’esperienza in Italia con Vanzina, del miglior consiglio che ha ricevuto, quello di Sean Connery: “bisogna divertirsi durante il processo perché come attore devi lavorare sul set ma poi quando finisci diventi disoccupato. Se non ti piacciono queste fasi alterne, non puoi fare questo lavoro. Ho deciso di farlo, sorridere, divertirmi…”. Sempre rispetto al mestiere dell’attore e alle differenze tra gli anni 80 ed i nostri giorni Kelly Le Brock sostiene che “Oggi non ci vuole talento per fare tv, guardate i reality show. Io non guardo la tv da vent’anni perché faccio altro, comunico e parlo con le persone. Non con i cellulari, che secondo me non sono un vero mezzo di comunicazione. A questo proposito credo che dovremmo fare un passo indietro…”
A seguire alle 15 incontriamo Pupi Avati in conferenza stampa tramite Skype. “Sembra una seduta spiritica” Avati esordisce così commentando l’incontro a distanza. Era atteso per l’omaggio a Lucio Dalla e per parlare della fiction da lui diretta, ma oggi festeggia anche il suo quarantottesimo anniversario di matrimonio: “In questa fiction voglio raccontare l’esperienza ostinata del matrimonio. Sono sei anni che cerco di portare avanti questo progetto, prima con mediaset, poi con rai fiction e finalmente ce l’abbiamo fatta”. All’inizio nella fiction racconta l’incontro tra i suoi genitori, ma il plot è anche un pretesto per raccontare il dopoguerra italiano attraverso le storie di questa famiglia bolognese. “Ho voluto smentire tutta quella cattiva letteratura sulle produzioni di fiction Rai. Io ho lavorato nella più totale libertà, senza ricevere alcun tipo di pressione. Ho avuto l’opportunità di stare con questi personaggi più di trenta settimane, questo spesso il cinema non te lo consente. Micaela Ramazzotti interpreta il suo personaggio attraversando una serie di età fino ai 70 anni in tanti contesti diversi. È Stato un arricchimento sia per me che per gli interpreti. Ho avuto l’impressione con questo tipo di lavoro di prendere commiato dai personaggi sentendo di essere stato esaustivo nei loro confronti”
Sempre sul cinema italiano aggiunge: “nonostante tutti gli sforzi che ho fatto per dare continuità al mio cinema mi rendo contro che ora tutto ciò è messo a dura prova. Ormai anche il centro di Bologna è vuoto culturalmente, non ci sono più cinema. Perché non considerare che la Tv ha un suo cinema che entra in tutte le case?”. I numeri di questo lavoro sono degni di interesse: 36 settimane di riprese; 6 puntate da 100 minuti (“come 6 film!”) La sceneggiatura di “Un matrimonio” è stata scritta dallo stesso Avati con il figlio Tommaso (46 anni, ha scritto una biografia di Raymond Carver) e con Claudio Piersanti, che ha collaborato agli ultimi lavori di Mazzacurati. Tra gli attori protagonisti ci sono Christian De Sica, Flavio Parenti, Micaela Ramazzotti, Mariella Valentini, Valerio Fabrizi, Katia Ricciarelli e due giovani attrici “molto brave” di cui non rivela ancora i nomi. Avati ricorda anche l’importanza del cinema televisivo di Rossellini e accenna ad un nuovo progetto televisivo su “una cosa già tentata da altri senza riuscire a portarla a termine” della quale ritiene di aver “trovato la password”. Il suo saluto finale va a Lucio Dalla: “un grande amico, un compagno con cui ho dormito tante notti durante la nostra tournèe, un uomo che è stato veramente generoso con tutti”.
Arrivo in coda all’appuntamento del Campus con Costanza Quatriglio e il CSC di Palermo (sede del centro sperimentale dedicata al cinema documentario). Si parla della carenza di canali distributivi per il cinema documentaristico in Italia al contrario dell’estero, ma anche di una carenza nel cinema di fiction rispetto alla narrazione del presente, vuoto colmato in parte dal genere documentario, grazie alla capacità di rinnovarsi che gli è propria. Costanza Quatriglio porta l’esempio dei fratelli Taviani che hanno trovato nuova linfa ultimamente nel cinema documentario.
Anche Gabriele Muccino in collegamento skype, questa volta da L. A. Il regista ci presenta il suo nuovo film: “la storia di un uomo che cerca di crescere e incontra suo figlio. Quest’uomo cade nella trappola paludosa della provincia da cui è difficile riemergere. Il non crescere e il non saper gestire un bambino che si è avuto da giovani è un problema che mi tocca. Non sei libero di sbagliare: quando sbagli è hai un bambino il tuo errore si catapulta su di lui. Stavo lavorando a un progetto molto simile quando mi sono imbattuto in questo copione. (…) Negli studios a volte i registi vengono considerati degli shooters, ma io non lo sono, devo affondare le mani nel film per vibrare e farlo vibrare a mia volta”. Muccino non nasconde le difficoltà riscontrate all’inizio nei rapporti con la produzione: “qui vogliono prodotti che possano piacere a tutti, senza spigoli, ci sono molti tabù su linguaggio e contenuti, regole che limitano l’espressione”. Ma si dichiara tuttavia contento del risultato ottenuto “con fatica e diplomazia”. A fare da sfondo a questa storia c’è il campetto di calcio, ma non è il tipico film americano sullo sport, il campetto rappresenta piuttosto “la piazza del paese nella quale si dipanano relazioni, conflitti”.
A proposito di scelte lavorative Muccino rivela anche di aver rifiutato di dirigere gli ultimi due episodi di Twilight: “ero incuriosito dall’idea di entrare in questo franchising, ma credo di non essere in grado, gli ho detto la verità”. Il regista vede l’Italia da fuori sembra e gli sembra molto fragile, aggiunge che per ogni italiano per troppo tempo è stato imbarazzante vivere all’estero, “non si parlava d’altro di Berlusconi”. Infine si dichiara soddisfatto e fortunato, eccetto che per un mancato invito al festival di Venezia: “soffro di non aver mai avuto un invito in giuria, per il resto…ciò che non piace a qualcuno può esaltare qualcun altro”.
La sera di mercoledì al teatro antico assistiamo a un tributo a Lucio Dalla con letture di Marco Alemanno, il compagno del cantante e proiezione delle fotografie scattate da Alemanno durante i viaggi con Lucio in Sicilia. Emozionante anche il contributo video con l’intervista a Franco Battiato che ricorda l’amicizia con Lucio, il sostegno pubblico del musicista bolognese durante uno dei suoi primi concerti in cui Battiato era stato fischiato.
Giovedì finalmente arriva l’evento da me più atteso in questi due giorni di permanenza al festival: l’omaggio a Theo Angelopoulos. Organizzato da Amedeo Pagani, Francesco Calogero e Mario Sesti. Angelopulos è morto il 24 gennaio a causa di un incidente. È stato investito da una moto durante le riprese de L’altro mare , a causa di uno sciopero delle ambulanze i soccorsi hanno tardato e quando hanno provato ad operarlo ormai era troppo tardi. Ce lo racconta Amedeo Pagani suo amico e produttore che era presente al momento dell’incidente: “Theo come tutti i poeti era una profeta. Aveva immaginato una scena analoga alla sua morte. (…) Conoscevo Theo dal ’75 avevo visto la cecità e ho voluto incontrarlo, era amico di Tonino Guerra. Subito mi ha chiesto perché lo volessi conoscere. Theo era molto trasparente. Gli ho detto quello che sapevo fare, che venivo dalla sceneggiatura e lui mi ha dato un copioncino… Era Paesaggio nella nebbia”. Hanno realizzato sei film insieme “una volta gli fu chiesto qual’era la posizione nel mondo che preferisse e lui rispose “stare seduto accanto a un guidatore con la macchina che cammina” – è il cinema!”
Mario Sesti cita Rohmer: “Il cinema non è fatto di immagini, ma di inquadrature dentro le quali scorre il tempo” e ancora dal Timeo di Platone: “Il tempo è l’immagine mobile dell’eternità”. Il tempo è il cinema di Angelopoulos, fatto di grandi piani sequenza, corpi che “succedono” davanti alla macchina: “al montaggio il piano sequenza è perfetto: è il racconto del tempo che stai narrando”.
Nella prima clip che vediamo di Paesaggio nella nebbia in un unico piano sequenza Angelopoulos ricostruisce tante microstorie, la caduta sorprendente della prima neve, la conseguente fuga dei bambini che approfittanto della distrazione vanno alla ricerca del padre, la scoperta della morte, il pianto inconsolabile del bambino, la sorella che assume il ruolo di madre. In questa scena, racconta Pagani, ad Angelopoulos non piaceva lo scintillio della neve, così andammo a prendere la neve in cima a una montagna”. Il produttore ci trasmette anche un altro aneddoto: di quando Angelopoulos lo chiamò al telefono e con una voce tragica disse “Amedeo, catastrofa! Non si vede la pioggia a 600 metri. Mandami gli uomini della pioggia italiani!” e, ancora, di un villaggio di mattoni che Angelopoulos aveva fatto costruire sul fondo di un lago che durante l’estate si svuotava. Dopo aver aspettato che arrivasse l’inverno e l’acqua aspettò per dieci giorni l’ondina perfetta, convinto che il lago ce l’avesse con lui.
Francesco Calogero ha condiviso invece una scena da La recita, film a suo dire imperdibile per chi si considera un vero cinefilo. Un film che tra l’altro fu premiato anche a Taormina e che rappresenta la fine del regime dei colonnelli. Fu girato nella zona che Angelopoulos preferiva e che definiva “la Grecia interiore”, la zona dell’Epiro. Tutto il film è stato realizzato senza che gli attori conoscessero la sceneggiatura. Nella clip mostrata c’è uno scontro esilarante tra fascisti e comunisti che da un tavolo all’altro si sfidano con i cori e si conclude con il ballo di coppia tra i maschi fascisti.
Le domande dei giornalisti e degli studenti si sono concentrate sul destino del film incompiuto che aveva come protagonista Toni Servillo. Le opzioni fino ad ora sono tre, rivela Pagani: lasciarlo così; chiamare un grande regista amico a completarlo (Wim Wenders sarebbe disponibile), o ricostruire la notte del 24 gennaio intervallando col girato che però purtroppo non contiene le scene più importanti, ma solo scene in interni. “In questo momento la famiglia di Angelopoulos non vuole fare nulla, paralizzata dal dolore, inoltre la situazione in Grecia come sappiamo è molto complessa in questo momento”. Il film voleva proprio raccontare la Grecia di oggi. Amedeo Pagani ci racconta anche che Angelopoulos scelse Servillo su suo consiglio, perché cercava un protagonista che gli ricordasse gli attori italiani degli anni 60 e aveva molto amato la sua interpretazione in Le conseguenze dell’amore.
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L’incontro ha toccato profondamente tutti i presenti in sala e sicuramente c’è il desiderio comune di riaprire la questione e di dedicare ulteriore tempo al cinema di Angelopoulos, aldilà del festival, forse al Teatro Valle con cui Mario Sesti collabora da diversi mesi.
Giovedì c’è stato anche uno scambio piuttosto informale sul cinema Made in Italy con Rodrigo Cipriani, Riccardo Tozzi, Riccardo Monti, Michele Lo Foco, Paolo Del Brocco. Il presidente di istituto luce- Cinecittà che si occupa della promozione del cinema italiano nel mondo ha parlato del progetto “Italia in luce” per canalizzarle risorse pubbliche per il cinema collegando i ministeri e creando connessioni tra i vari continenti, in grado di dare risposte operative al mercato. Il progetto prevede anche degli incentivi ai distributori internazionali che acquistano film italiani. Anche Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema, sembra essere ottimista, parla di “coesione tra i vari ambienti del cinema italiano, che anche i film d’autore quest’anno sono andati incontro a un pubblico più eterogeneo.
Quest’anno nel listino 01 ci saranno Bellocchio, Garrone, Virzì, manterremo quindi un alto livello qualitativo”. Carlo Monti, presidente dell’istituto per il commercio con l’estero parla invece del progetto di un reality sulla bellezza in Italia per le televisioni cinesi. Quest’anno sarà anche la volta della settimana del cinema italiano negli Stati Uniti. A Hong Kong Rai cinema sta invece organizzando con il comune di Roma un grande evento per promuovere il Made in Italy.
Ma di fatto c’è la consapevolezza comune che mentre in Francia vengono destinati al cinema più di 700 milioni in Italia solo 10 milioni vanno al comparto cinematografico. I francesi da anni finanziano le loro distribuzioni all’estero. Prende la parola il produttore Amedeo Pagani dichiarandosi desolato, per aver assistito all’ennesimo incontro in cui ci si domanda cosa possiamo fare per il cinema italiano: “Qui c’è una sola cosa da fare: la legge “francese”..chiamiamola come vogliamo”. Ma le risposte sono molto disilluse. Chi gestisce l’apparato cinematografico in Italia a quanto pare non ha alcuna intenzione di attuare una legge democratica, perché così finirebbe il regime delle lobby. C’è bisogno di un cambiamento radicale, certo, mi viene da dire, non saranno questi signori ad attuarlo, è la mia generazione che presto ne sentirà l’urgenza.
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