Tempo fa vidi un documentario sui parenti delle vittime dell’11 Settembre. Dopo “il giorno più brutto”, le televisioni erano invase da immagini di uomini e donne che si lanciavano nel vuoto da quelle altissime torri. In quelle sagome sfuocate, sospese nell’aria, mogli, mariti, figli, madri, riconoscevano dolorosamente il proprio caro ed è proprio con le immagini di un uomo che cade nel vuoto, che inizia l’ultimo lavoro del regista Stephen Daldry.

Oskar Schell (Thomas Horn) è un ragazzino speciale. Intelligente, curioso, è sempre pronto ad affrontare le sfide lanciate dal padre Thomas (Tom Hanks). Il bambino infatti ha problemi relazionali (si sospetta che abbia la sindrome di Asperger) e il padre, spronandolo sempre a cercare qualcosa, lo induce ad entrare in contatto con gli altri e a non avere paura. Ma quando Thomas perderà la vita nell’attentato alle Torri Gemelle, Oskar sentirà di dover colmare il vuoto lasciatogli dal padre con una nuova ricerca, una nuova avventura. Casualmente troverà una chiave tra i suoi effetti personali. La disperata ricerca per capire che cosa essa apre, porterà Oskar ad incontrare tante persone diverse che, come lui, sono dei “sopravvissuti” della vita.

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Il film è tratto dal romanzo omonimo di Jonathan Safran Foer (autore di Ogni cosa è illuminata). Chi scrive purtroppo non ha letto il libro ma la sensazione (riscontrata anche da altri) che le tematica fosse qualcosa di veramente difficile da trasferire sullo schermo l’ho avuta anch’io. Basilari, in questo racconto, sono i dialoghi. Le parole dette e non dette. Il rapporto tra Oskar e i suoi genitori è basato su parole “sospese”. Il padre voleva che il figlio scoprisse da solo le cose. E dopo la sua morte, la madre ( una brava e bella Sandra Bullock) protegge con i silenzi il piccolo Oskar. Ma i pensieri e le sensazioni di questo bambino ferito sono così forti da non poter essere taciute. A volte esplodono in logorroici monologhi che, nonostante  la bravura del giovane attore, appaiono purtroppo artefatti e stonati. Lo stesso vale per i dialoghi tra Oskar e le persone che incontra nella sua ricerca. Il modo in cui questi adulti si rapportano con un bambino di 9 anni non risulta realistico. E tutto questo strano modo di esprimersi nella relazione con l’altro rende il film, in alcuni momenti, noioso e un po’ destabilizzante.

Unico raggio di luce in fondo a questo caotico tunnel è la straordinaria interpretazione di Max von Sydow (nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista). L’attore prediletto di Ingmar Bergman (Il settimo sigillo), incarna i panni de “l’inquilino”, il misterioso personaggio ospitato in casa della nonna di Oskar. La grande curiosità di quest’ultimo li farà incontrare e questa “buffa” coppia ( un ragazzino intelligente ed ostinato e un uomo anziano che non parla) condividerà l’avventura della chiave. L’inquilino muto, che si esprime solo attraverso la scrittura, incarna forse al meglio una storia che sulla carta si sviluppava con discorsi e pensieri complessi, ma che sullo schermo avrebbe dovuto forse abbandonarsi di più alle immagini, prediligendo dialoghi più concisi e diretti, come i “pizzini” proprio di Max Von Sydow.

Il film (seppur in maniera retorica) commuove. Impossibile non empatizzare con il piccolo Oskar. La storia di un bambino che cerca “la chiave” per avere un ultimo “dialogo” con il padre, tocca il cuore. Come anche un genitore che insegna al suo piccolo a non avere paura. A lanciarsi nel vuoto, a volare ed essere libero.

Oltre a  quella di Max von Sydow, anche le altre interpretazioni non deludono (comprese le piccole partecipazioni di Tom Hanks e Viola Davis). Chi delude invece è Daldry (indubbiamente legato alla sceneggiatura di Eric Roth, Oscar per Forrest Gump). Dal regista di Billy Elliott, The Hours e The Reader, ci si aspettava una maggiore  capacità di tenere le redini di una storia, sì difficile, ma che comunque era appieno nelle sue corde di regista di commoventi drammi. E che invece gli è sfuggita un po’ dalle mani. Peccato!

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