Quanto conta il fattore autenticità nel secolo della CGI?

Ha ancora importanza parlare di antropocentrismo nell’era dei personaggi generati al computer e ricreati senza correre rischi nelle quattro mura degli studios?

Nello spettro filosofico di Peter Weir, sia che si sia trattato di collegiali aristocratiche (Picnic a Hanging Rock), di reporter in trasferta cambogiana (Un anno vissuto pericolosamente) e di protagonisti loro malgrado di un reality show ante litteram (The Truman Show), una parte di primo piano è sempre stata rappresentata dall’insanabile contrasto fra l’Uomo e l’Ambiente in cui egli ha scelto più o meno consapevolmente di agire: The Way Back, oltre ad essere un drastico ritorno sul set naturale dopo il 90% di scene girate in studio di Master and Commander, è la cronaca di un interminabile pellegrinaggio fra steppe siberiane, deserti e ghiacciai di un disperato e assai sociogeograficamente composito manipolo di vittime delle purghe staliniane.

Si va dal giovane polacco dalla incrollabile fede nel prossimo al maturo e introverso americano dal passato che nasconde più di un triste segreto, continuando con il ferino carnefice sovietico di sicura redenzione e il buontempone yugoslavo a cui spetta sdrammatizzare l’impossibile – ed è, sulla carta, l’apoteosi di tutte le fobie, le ossessioni e i punti fermi della poetica di un autore che non ha mai saputo superare la paura nei confronti di un congenito provincialismo figlio dei propri natali australiani, ai quali sono stati attribuiti equivalenti finzionali non propriamente idilliaci, dall’America reaganiana e ultracapitalista di Mosquito Coast alla plastificata Seahaven di The Truman Show, passando per la Francia di Green Card e la Philadelphia di Witness, culminando infine proprio con il gulag e gli inabitabili territori naturali di The Way Back, un’incarnazione resa ancora più viscerale dal contributo stesso di Weir come co-sceneggiatore, ruolo da lui ricoperto solo di rado.

Questo però non significa che, nel cinema del regista di Sydney, la patria di adozione – sia essa l’incontaminata foresta amazzonica del Belize, la Pennsylvania degli Amish o la vita reale fuori dagli studi televisivi – abbia rivestito un valore salvifico, anzi, è sempre stata circonfusa da un alone di incertezza o, nei casi peggiori, di inconciliabilità, di mancata accettazione.

Quello che avrebbe potuto essere il culmine della tematica weiriana, tuttavia, finisce per arenarsi drammaticamente in fase di scrittura, soprattutto a causa dei numerosi dubbi insorti nella verifica della veridicità dei fatti narrati da Slawomir Rawicz nella sua autobiografia The Long Walk (1955), di cui la pellicola avrebbe voluto essere un fedele adattamento: il condizionale, purtroppo, è d’obbligo, visto che indagini di mezzo secolo più tardi hanno svelato il carattere prettamente romanzato della testimonianza di Rawicz e la probabile inesistenza dei suoi compagni di viaggio.

Questo spiegherebbe in sostanza, in primis, i sette lunghi anni che separano l’opera dal precedente Master and Commander e, soprattutto, l’assai poco convincente schematicità dei personaggi e delle situazioni: già la didascalia iniziale, che dedica genericamente il film “a tre persone che nel 1941 hanno attraversato l’Himalaya fino ad arrivare in India”, sembra già un tentativo di prendere le distanze dal testo di base, e ciò che segue, dalla sentenziosità didascalica dei dialoghi all’esigenza di offrire a ciascun protagonista – di volta in volta, uno per uno, a turno – l’occasione di una scena che lo “riveli”, è il risultato della malriuscita rielaborazione in fiction di una vicenda che era data per autentica.

In questo modo, la Storia finisce per perdere tutto il suo impatto tragico – non si scava mai davvero a fondo nella crudeltà del regime del Piccolo Padre – e si riaffaccia solo in momenti non solo implausibili, ma anche narrativamente mal risolti, come nell’improvvida scoperta del patto fra Russia e Mongolia che di fatto obbliga i fuggitivi a cambiare drasticamente il loro percorso, o nel pessimo finale, con quella “passeggiata lungo il Novecento” che fa davvero cadere le braccia.

Laddove la sceneggiatura rivela i propri imperdonabili limiti, la regia di Peter Weir, pur non avendo mai posseduto il talento e il pessimismo cosmico di un Herzog o l’inventiva pittorica di un Depardon (si veda il magnifico La Prigioniera del Deserto), illustra perfettamente una Natura soverchiante e ostile che sa imporsi sull’insignificanza più o meno voluta dell’elemento umano, confinato fra macchiette stantie (il solito Colin Farrell lasciato a briglia sciolta) ed eroi privi di carisma (un Jim Sturgess efficace, ma non esattamente incisivo): alla fine, bisogna aspettare che arrivino il silenzio e il paesaggio per respirare aria di Cinema, come nel viaggio solitario di Janusz o nel dignitoso e triste destino di Irena.

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Ed è qui che la scelta di girare totalmente in esterni, nei luoghi effettivi di “The Long Walk” (Gobi escluso, sostituito dal Sahara, dove però le temperature di certo non sono inferiori) e senza interventi significativi di grafica computerizzata ha fatto davvero la differenza e ha dato linfa ad un progetto che, addomesticato dalle riprese in studio, non avrebbe avuto la medesima forza. Peccato, però, che The Way Back non sia tutto così.

Insomma, ad un valente e immaginifico metteur-en-scene affiancato da collaboratori di ferro (lo scorsesiano – ma non solo – Paul Schrader di Mosquito Coast e il drammaturgo David Williamson di Gli Anni Spezzati, non a caso i suoi due film più riusciti) si è sostituito un narratore dilettante e poco accorto che ha saputo riscattarsi a malapena con la perizia del proprio mestiere di partenza.

The Way Back, in conclusione, è un esperimento fallito di un autore volenteroso e capace che non è stato in grado di abbinare adeguatamente il messaggio al linguaggio e che ha pagato lo scotto delle proprie incertezze: un documentario sull’esperienza del cast artistico e tecnico sballottato fra infinite distese di sabbia e invivibili ghiacciai avrebbe forse rappresentato più degnamente l’universo interiore e creativo di Peter Weir (si pensi a Viaggio all’Inferno di George Hickenlooper, sulla lavorazione di Apocalypse Now), ma la necessità più o meno discutibile di rientrare nei canoni del cinema di finzione ha reso il tutto molto meno interessante e sincero.

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2Comments

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