Le sparute allodole del Festival atterrano – anzi, sbarcano – al Lido con relativa apatia nei confronti delle prime proiezioni del programma, preoccupate principalmente di mettersi in regola con accrediti e abbonamenti prima del fuoco di fila dei prossimi giorni e di prendere nuovamente confidenza con le coordinate geografiche del Movie Village, assistendo al montaggio delle ultime impalcature e misurando accuratamente la distanza fra una sala e l’altra per scongiurare – contrattempi permettendo – ritardi indesiderati.
Piuttosto che inaugurare il proprio carnet con le cinque ore e mezza senza sosta di Shokuzai, la già edita miniserie televisiva patrocinata da Kiyoshi Kurosawa, nuovamente a Venezia dopo il lungometraggio Sakebi, o con l’intruso in tre dimensioni Bait 3D, praticamente già pronto per il passaggio estivo su Canale 5 per il ciclo Alta Tensione, gli ospiti affezionati e neofiti della kermesse ritrovano i volti e i luoghi familiari dell’anno prima giocando alla propria personale versione del “Quasi tutto come allora” di enigmistica memoria o si preparano a ricevere la loro prima, indimenticabile impressione.
C’è chi si spinge in Campo San Polo, soprattutto i locali, per riapprezzare un ancora attualissimo gioiellino di De Santis, Roma ore 11, mentre gli accreditati della prima ora si riversano in Sala Darsena per accogliere la nuova avventura di Jonathan Demme, l’ultimo capitolo di una filmografia che, nell’ultimo decennio, ha finito per privilegiare il documentario alla fiction con risultati sempre interessanti (il bel Man from plains, per citarne uno), se non addirittura davvero brillanti (si pensi tanto all’emozionante The agronomist o all’ultimo, appassionantissimo The good, the mad and the beautiful, presentato a Venezia lo scorso anno): alla pari di un autore ai suoi antipodi come Werner Herzog, il regista de Il silenzio degli innocenti non ha rinunciato in toto a casting e sceneggiature in favore di un cinema esclusivamente di ricerca e di indagine, ma ha finito comunque per far sfigurare le sue più recenti opere di finzione (come gli scipiti remake The truth about Charlie e The Manchurian Candidate o il lievemente sopravvalutato Rachel sta per sposarsi) di fronte alla freschezza del suo operato nonfiction.
Alla galleria dei personaggi umili ma fieri analizzati antropologicamente, artisticamente o storicamente da Jonathan Demme si aggiunge nientemeno che l’eclettico compositore partenopeo Enzo Avitabile, prototipo, come l’attivista Jean Dominique, l’ex presidente Jimmy Carter, l’eroina di tutti i giorni Carolyn Parker o i cantautori Neil Young e Robyn Hitchcock, di un’umanità che procede in punta di piedi e senza imporsi con l’irruenza di chi parla più forte, ma con la pacatezza risoluta di chi sa di esprimere qualcosa di giusto: quello del cineasta di Long Island per l’universo compositivo del musicista napoletano è stato un autentico colpo di fulmine che, al contrario dei più meditati lavori precedenti, protrattisi per mesi, se non anni, di inchiesta e/o di riprese, si focalizza su una sola, intensa settimana trascorsa a filmare la vita e l’arte di Avitabile, impegnato in esibizioni tradizionali, dove spuntano anche uno scatenato Trilok Gurtu e, in particolare, un commovente Eliades Ochoa – fra i pochi superstiti del nucleo originale del wendersiano Buena Vista Social Club – al suo personalissimo tres a otto corde, o in improvvisazioni meno ortodosse al sax in giro per i condomini “sgarrupati” della Marianella mentre dalla soglia spuntano amici e vecchie conoscenze.
Si intravedono solo di sbieco, con discrezione, i momenti tragici della biografia di Avitabile, come la morte di sua moglie o una cecità totale scongiurata da due interventi alla cornea, e ci si concentra soprattutto ad inquadrare la passione di un uomo di musica che affronta il proprio mestiere con il medesimo entusiasmo di inizio carriera, sì orgoglioso dei propri traguardi, ma capace anche di riscoprire i lati più nascosti di se stesso (esemplare, in questo senso, la scena in cui il compositore si confronta con gli spartiti dei suoi brani inediti e li riscopre grazie ad un programma di videonotazione computerizzata).
E’ vero che l’infatuazione di Demme finisce qualche volta per rendere il film fin troppo irriflessivo e diretto, se non addirittura abbozzato e frettoloso, e si ha quasi l’impressione generale di assistere più ad un backstage che ad un effettivo progetto autonomo, ma, specie se posto in correlazione con l’assai frammentario Passione di John Turturro o con l’ibrido pasticciato Napoli Napoli Napoli di Abel Ferrara – tanto per menzionare altre opere documentaristiche sul capoluogo campano dirette da autori newyorkesi e proiettate di recente al Lido – Enzo Avitabile music life dimostra ancora una volta quanto a Demme sia sufficiente armarsi di una videocamera digitale a bassa definizione e circondarsi di una troupe ridotta al minimo per raccontare una storia avvincente e rivelare al mondo una realtà più coinvolgente di qualsiasi script.
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