Dopo la bolla di sapone, tanto semplice e limpida quanto evanescente e passeggera, del giorno zero, migliaia di tessere colorate si riversano per il Movie Village, dando via a quella straordinaria routine fatta di appollaiamenti sulle transenne, sospiri di sollievo al rumore di un cancello che si apre, controlli sommari, ricerca spasmodica della propria poltrona di fiducia, duelli contro le proprie palpebre per un tempo non inferiore ai 75′, applauso di rito, scapicollamento verso l’uscita, ingurgitamento di dosi mai abbastanza sufficienti di caffé rigorosamente nerissimo e ritorno alla casella di partenza senza nemmeno passare dal via. Si ripeta l’operazione una mezza dozzina di volte, aggiungendo qualche imprecazione qua e là, e si otterrà la giornata tipo di un ligio e a tratti masochista frequentatore di una mostra del cinema a scelta. E nel migliore dei casi si rischia persino di divertirsi.

La giornata (e il Festival stesso) si apre con The reluctant fundamentalist di Mira Nair, esattamente il tipo di operazione che ci si aspetta da un autore terzomondista stabilitosi privatamente e artisticamente nel continente americano: la regista di Monsoon Wedding non abbandona i temi portanti della propria poetica, dallo scontro fra culture differenti alla paura del pregiudizio, ma, in piena linea con la metamorfosi para-hollywoodiana della sua carriera, semplifica e spersonalizza il suo stile al punto tale da conformarsi totalmente alla logica del mercato statunitense. La vicenda di un giovane pakistano cresciuto secondo i dettami del Mito americano e della new economy ma progressivamente disamorato del suo paese d’adozione, sempre più diffidente, se non ostile, all’alba degli attentati dell’11 settembre si trasforma in un autentico thriller di fattura indubbiamente professionale, ma che sconta fin troppo le differenze sostanziali dal romanzo di partenza e risolve banalmente le ambiguità e i misteri che ne accompagnavano lo sviluppo.

Si prosegue con Tai chi 0 di Stephen Fung, anch’esso fuori concorso: il merito indubbio delle proiezioni di mezzanotte è quello di portare a conclusione nel modo più scanzonato una giornata ricca di pellicole per le quali sono richiesti impegno e dedizione, ma quando un gongfu movie ha come protagonista un prodigio delle arti marziali che rivela il proprio talento nel combattimento quando qualcuno lo colpisce con forza su una protuberanza brufolosa del suo cranio (sic!) e poi, fra divagazioni steampunk, commenti musicali industrial e pretestuosi rimandi in stile Scott Pilgrim VS. the World ad un’estetica da videogioco, finisce per essere prolisso in appena 95′ di durata (5′ dei quali dedicati al sequel girato back to back) e pure per prendersi sul serio con morali antitecnologiche, allora c’è qualcosa che non va.

Indubbio vertice della giornata è invece Stories we tell di Sarah Polley, intenso e riuscitissimo docudrama che, se all’inizio appare come un classico ritratto autobiografico di famiglia sullo stile di L’Aimée di Arnaud Desplechin e di Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi – peraltro superando entrambi in quanto a fattura e coinvolgimento – col passare dei minuti rivela insospettabili ascendenze kiarostamiane sulla dicotomia realtà/finzione e sul concetto di rielaborazione filmica (si pensi a Close-up): i filmati in super8 a cui abbiamo cominciato ad affezionarci si rivelano essere tutt’altra cosa, le testimonianze intrecciano tutte le loro reciproche incongruenze e ci si commuove di fronte ad una vicenda tanto quotidiana quanto straordinaria. Laddove Polley si lascia prendere un po’ la mano è nell’intenzione, nell’ultimo quarto di film, di svelare esplicitamente l’espediente metacinematografico della ricostruzione dei fatti tenendo lo spettatore per mano invece di farlo giungere per conto proprio alla soluzione che preferisce, ma anche così Stories we tell conferma ulteriormente il talento di questa giovane autrice canadese che già con il notevole esordio di Away from her aveva conquistato l’attenzione di molti.

Kinshasa Kids di Marc-Henri Wajnberg, come il precedente nelle Giornate degli Autori, è un’onesta variazione sul tema de I figli della violenza (anzi, meglio, de Los olvidados) di Luis Bunuel, con la Repubblica Democratica del Congo a sostituire il Messico e senza bisogno di catarsi conclusiva: la vita quotidiana di un manipolo di bambini scacciati dai propri villaggi in quanto identificati superstiziosamente come presenze malefiche viene filmata da Wajnberg con l’immediatezza della forma documentaristica, ed è proprio in questi momenti, quando la camera rimane letteralmente attaccata ai corpi dei piccoli protagonisti in mobilissimi piani sequenza, che Kinshasa Kids trova i suoi momenti più felici, oltre che nelle esagitate sequenze musicali. Piuttosto non è chiaro il motivo per cui, in alcune scene, il film si prenda delle pause dalla storia raccontata divagando su personaggi estranei alla vicenda e senta il bisogno di fingersi un effettivo documentario, con tanto di attori che infrangono la quarta parete e che si rivolgono direttamente al regista come se stesse effettuando riprese clandestine, in momenti praticamente autonomi rispetto al resto della pellicola.

Nadir del primo giorno di Mostra è proprio il primo film in concorso, il russo Izmena di Kirill Serebrennikov: quest’ultimo, affermato autore e regista teatrale, aveva già mostrato i sintomi di una dialettica cinematografica totalmente sgrammaticata e vacuamente provocatoria nel precedente Izobrazhaya Zhertvu, rielaborazione su grande schermo di una sua piéce. Qui lo stile si affina, il grottesco lascia spazio all’austerità, ma i risultati non sono migliori, e sembra di assistere per due interminabili ore alla parodia del prototipo estetico e narrativo del cinema festivaliero più ricercato, in particolare quello del conterraneo Andrej Zvyagintsev e del belga Bruno Dumont, ma Serebrennikov non si ferma qui: una semplicissima storia di infedeltà coniugale si trasforma progressivamente nella più cervellotica e pretenziosa vicenda di corna da tinello che si possa concepire, con parentesi grottesche che cadono nel vuoto, basse provocazioni e una svolta a mezz’ora dalla fine in cui inizialmente si teme di immettersi su una versione est-europea delle Strade Perdute lynchiane, e che invece si risolve banalmente nel sospetto che il primo concorrente di Venezia69 non abbia la minima idea di come tessere le fila del racconto.

Gli equilibristi di Ivano de Matteo sembra quasi una variazione piccolo-borghese e più tradizionale della pellicola precedente, ma ambizioni più basse – che non equivalgono, sia inteso, a una maggiore superficialità – consentono ad una piccola produzione italiana di dire qualcosa di sincero sulla condizione del ceto medio-basso alle prese con le piccole rivoluzioni di tutti i giorni: anche qui c’è di mezzo un tradimento, in questo caso però risolto immediatamente con una separazione che rappresenta il fulcro morale del film e l’avvio della storia. Le vicende private di un impiegato postale romano alle prese con le difficoltà economiche sorte dalle conseguenze del suo flirt con una collega di lavoro si trasformano in lungo calvario che ricorda alla lontana il Kaurismaki degli anni ’80: peccato che l’ottima interpretazione di Mastandrea e il bel lavoro di macchina di De Matteo non riescano pienamente a far dimenticare lo squilibrio e le incongruenze degli sviluppi della trama.

You May Also Like

More From Author

+ There are no comments

Add yours