Nell’unica giornata in cui alla stampa è negato il Concorso ufficiale, l’unica fonte di interesse sembra provenire dalla proiezione del documentario che Spike Lee ha dedicato al venticinquesimo anniversario della pubblicazione dell’album Bad e agli eventi successivi al prematuro decesso di Michael Jackson. Va ricordato, tuttavia, che il bello di un Festival cinematografico è da ricercare anche nella democratizzazione incondizionata di tutte le opere presentate al Lido e nelle pari opportunità che ciascuna di esse ha per ottenere visibilità. E’ quindi con relativo sprezzo del circuito mainstream che la nostra attenzione va a porsi, invece, sulle sezioni collaterali e sui lungometraggi destinati a rimanere offuscati dalla vasta copertura mediatica che verrà inevitabilmente dedicata alla celebrazione postuma del Re del pop.
Abbandonando quindi temporaneamente la Darsena, questa volta si parte dalla Sala Perla e dalla Settimana della Critica, che apre ufficialmente la competizione dopo l’evento speciale di Water con il belga Tom Heene e il suo Welcome Home, risultato dell’unione di tre cortometraggi girati nel 2009, aventi tutti come protagonista una giovane ragazza di Bruxelles e le sue idiosincrasie sentimentali a confronto con tre uomini diversissimi, il suo fedele ragazzo rimasto vittima delle di lei scelte di vita, un viaggiatore iraniano di mezza età di passaggio in Belgio e un giovane turista che, per caso, finirà per investirla. A metà fra le conversazioni rohmeriane e il ritratto femminile in stile Clèo dalle 5 alle 7, senza negarsi un pizzico di erotismo esplicito, lungo i pregnissimi 72′ di durata si assiste ad un’opera prima tutt’altro che frammentaria (come invece suggerirebbe la sua genesi) e decisamente riuscita, con il valore aggiunto del sensazionale accompagnamento musicale di Peter Lenaerts.
Si prosegue con Tango libre di Frédéric Fonteyne, “retrocesso” nella sezione Orizzonti dopo l’ottimo Una relazione privata e a otto anni dall’ultimo La donna di Gilles (entrambi accolti a Venezia): il catalano Fernand e il fiammingo Dominique, condannati rispettivamente a 10 e a 20 anni di carcere, si dividono consensualmente l’amore di Alice, moglie del primo e ballerina dilettante di tango argentino. La strana armonia viene infranta dall’evoluzione del triangolo amoroso in un fragile pentagono, in cui entrano Jean-Christophe, secondino nel carcere dove i due scontano la pena e, per uno scherzo della sorte, compagno di Alice al corso di danza, e un terzo detenuto argentino, che, scatenato dalla gelosia di Fernand nei confronti di Alice, trasforma la consueta ora d’aria in effettive lezioni di tango, senza donne e senza musica.
Il film si mantiene su coordinate quasi almodovariane, non si prende mai troppo sul serio ed evita il ridicolo grazie ad una buona dose di autoironia e ad un cast sfavillante, dove domina il solito Sergi Lopez, che, se avesse goduto di un minimo di visibilità in più nel corso della sua carriera, avrebbe meritato a pieno titolo la reputazione di erede ideale di Gerard Depardieu. Peccato che tutto alla fine si risolva in un finale così scombinato e ingiustificabile che, pur non mortificando la godibilissima ora e mezza precedente, getta un’ombra imperdonabile sulla pellicola.
E’ poi il turno di Mare chiuso, breve documentario diretto da Stefano Liberti e da Andrea Segre, che torna a Venezia a un anno dal notevole successo di Io sono Li: il dramma dei respingimenti e degli effetti della sciagurata amicizia fra Italia e Libia fino alla detronizzazione di Gheddafi, viene visto in tutta la sua trascinante, terribile immediatezza con interviste ad alcuni sopravvissuti dei viaggi della speranza dello scorso quinquennio che, per la stragrande maggioranza, sono rimasti confinati in brulli campi tunisini di accoglienza in attesa di vedere i loro diritti riconosciuti da un Paese che soltanto sei mesi fa si è assunto in parte la responsabilità delle proprie incostituzionali scelte di politica estera. Nel corso del successivo incontro promosso direttamente dal Consiglio d’Europa, dove erano presenti, oltre ai due registi, anche due dei profughi coinvolti nelle vicende e membri delle istituzioni nostrane ed europee, non sono mancate frecciate e accuse per nulla velate – ma un po’ tardive e benedette dal senno di poi – nei confronti del Governo Berlusconi IV, ma lo spazio riservato al confronto con il pubblico presente in sala (forse anche a causa di un imprevisto posticipo di un’ora nella programmazione) si è risolto purtroppo nel giro di pochi minuti.
Fuori concorso è anche il francese Cherchez Hortense, diretto da Pascal Bonitzer, frequente cosceneggiatore per Jacques Rivette, e interpretata da un cast perfetto per gli amanti della commedia francese più sofisticata, a partire da Jean-Pierre Bacri (marito della regista Agnes Jaoui e, pescando nel mazzo, indimenticabile Monsieur Castella de Il gusto degli altri), l’emotiva anonima Isabelle Carré, la grandissima Kristen Scott Thomas e l’ultraottantenne Claude Rich, tutti al massimo della forma e invischiati in una spassosa vicenda di piccole sopraffazioni generazionali, familiari e burocratiche che guardano tanto a certo cinema di Otar Iosseliani (nel cui recente Chantrapas recita lo stesso Bonitzer) e alle caricature di Wes Anderson.
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