Ribelle – The Brave: verso la fine dell’Alto Medioevo, l’inquieta discendente di una nobile famiglia scozzese, irriguardosa delle norme dinastiche e anticonformista per vocazione, decide di mandare all’aria secoli di convenzione e, da paradigma di autentica emancipazione femminile ante litteram, combatte la sua personale battaglia per l’affermazione di sé in quanto individuo autonomo e slegato dallo stereotipo della fiaba occidentale tradizionale.
Prima di proseguire, però, è necessario fare un passo indietro.
Quando nell’aprile 2008 venne annunciato l’inizio della lavorazione di “The Bear and the Bow”, la Pixar aveva rastrellato una serie di successi inaudito per uno studio di produzione di nuova generazione, indipendentemente dal genere di specializzazione: era stata acquistata, per una cifra pari a 7,4 miliardi di dollari, da una Walt Disney Animation Studios in inarrestabile declino e in evidentissima crisi creativa, aveva imposto uno standard di inventiva e di tecnica sempre più inarrivabile per detrattori e rivali (in primis, la Dreamworks), aveva a tutti gli effetti portato a definitiva maturità quello che nei decenni antecedenti veniva semplicisticamente confinato nel novero dei cosiddetti “cartoni animati”.
Nel giro di poco meno di un anno, a ridosso della presentazione cannense di “Up” – ennesimo record infranto, trattandosi del primo film d’animazione in assoluto ad aprire il Festival -, una delegazione formata da John Lasseter, Brad Bird, Andrew Stanton, Pete Docter e Lee Unkrich sarebbe stata invitata dalla Mostra del Cinema di Venezia a ritirare un inatteso Leone d’Oro alla Carriera, dopo nemmeno vent’anni di realizzazione di lungometraggi.
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“Up” e “Toy Story 3”, non solo prevedibili campioni di incassi puntualmente riconosciuti dall’Academy, ma anche opere capaci di racimolare una candidatura nella categoria riservata alle migliori pellicole della stagione, avevano rappresentato il culmine di uno stato di grazia costante, una parabola ormai approssimatasi ad una linea retta di cui si faticava a intravedere la fase calante.
Poi, il tracollo: quando si cominciò a parlare di “Cars 2”, furono in molti a dubitare della validità e della sincerità dell’iniziativa, per la prima volta pareva palesarsi il sospetto di una mossa principalmente dettata dalla volontà di rimpinguare le casse e di sacrificare in misura pressoché totale la poesia al merchandising, l’immaginazione alla speculazione, il consenso al profitto. Tutto andò come previsto: il responso del botteghino, a dire il vero meno generoso del solito, non si accompagnò alla consueta acclamazione da parte della stampa e degli spettatori più affezionati, e il film rimase persino escluso dalle candidature degli Oscar dello scorso anno, un precedente clamoroso se messo in relazione alle quattro vittorie consecutive da “Ratatouille” ad “Up”.
“Cars 2” non si limitò ad essere un momento di regresso nell’operato della Pixar: fu la netta confutazione dell’infallibilità della compagnia, l’illustrazione perfetta di tutti i suoi punti deboli. Alla luce del comunque ottimo “Toy Story 3” e di “Cars 2”, la messa in produzione del prequel di “Monsters & Co.” – forse il loro capolavoro assoluto – fece definitivamente scattare l’allarme: John Lasseter si stava forse lasciando tentare dalla facile scappatoia della serializzazione, che aveva già minato la credibilità tanto della Dreamworks quanto della Blue Sky – giunti entrambi al quarto episodio realizzato o previsto dei loro franchise più fortunati – e che tuttavia aveva garantito introiti da capogiro?
Sulla base di questi ultimi sviluppi, “Brave” – così venne reintitolato “The Bear and the Bow” – rappresentava per molti il ritorno alla formula più collaudata e pura della poetica targata Pixar, scevra da evidenti operazioni di mercato e libera di tornare alla sperimentazione di nuovi linguaggi e universi.
Molte furono le novità e i traguardi annunciati: si sarebbe trattato del primo film di ambientazione classicamente fiabistica per gli studi di Emeryville, della loro prima eroina in mezzo a un microcosmo fino ad allora prettamente maschile, nonché del loro primo progetto interamente affidato ad un’equipe quasi esclusivamente composta da donne, capitanata dalla soggettista e regista Brenda Chapman (“The Prince of Egypt”). Qualcosa, tuttavia, andò storto, e in cabina di regia passò il cosceneggiatore Mark Andrews.
Non è dato conoscere i dettagli delle “divergenze creative” che hanno provocato l’allontanamento di Brenda Chapman, ma, a visione ultimata, sarebbe difficile uscire dalla sala convinti di essere tornati ai fasti dei due decenni passati: se la delusione dell’anno scorso poteva essere largamente preventivata e accolta con indulgenza, le riserve nei confronti di “Brave” si fanno forse meno severe, ma più complesse e proiettate nel tempo.
Innanzitutto, con l’entrata in scena di Andrews, al suo debutto nel lungometraggio, viene a mancare la gestione forte e salda dei film precedenti, nei quali, a parte un paio di eccezioni, a un veterano dell’azienda (inizialmente quasi sempre Lasseter) veniva affiancato un animatore destinato alla guida di progetti successivi (Stanton e Unkrich, rispettivamente secondi al comando di “A Bug’s Life” e di “Toy Story 2”, esordirono autonomamente alla regia con “Finding Nemo”, e secondo lo stesso principio avvenne il corso di Pete Docter, autore di “Monsters, Inc” e di “Up”): con un novizio come Andrews al timone (effettivamente suo è soltanto il cortometraggio “One Man Band”) e un collaboratore totalmente esterno alla Pixar come la Chapman, mancano i caratterizzanti marchi di fabbrica della compagnia, e il risultato si rivela in tutta la sua anomalia.
Se c’è una qualità impossibile da negare alla Pixar, si tratta della capacità di aggiornare il proprio catalogo, le proprie ambizioni e il proprio spettro creativo da un capitolo all’altro della propria filmografia: ogni nuovo prodotto, nel bene e nel male, ha sempre significato un fatidico passo in avanti tanto nell’economia dell’azienda quanto nella storia del cinema d’animazione, un distacco nettissimo dalla tradizione disneyana più vieta e una intelligente rielaborazione dei loro illustri predecessori internazionali (si pensi al nostro Bozzetto per “The Incredibles” o alla crescente affinità con lo Studio Ghibli, fonte ricorrente di citazioni).
Ciò che manca alla nuova pellicola di casa Pixar è proprio quella fucina scoppiettante di intuizioni capace di differenziare ogni sua creazione dalla derivatività della concorrenza: fatto sta che, mentre Jeffrey Katzenberg si rendeva conto di poter sfornare ottime imitazioni come “How to Train Your Dragon” e mentre Lasseter rifondava sapientemente il canone della casa madre con tre gioielli impregnati di nostalgia e di ritorno alle origini come “Enchanted”, “The Princess and the Frog” e “Tangled”, la non grave flessione dell’ispirazione pixariana si è palesata in misura maggiore di quanto effettivamente fosse.
E dire che il soggetto di partenza pareva oltremodo accattivante, i temi in ballo potevano essere molti, a cominciare dalla rivoluzione del cliché della fiaba e dei suoi personaggi femminili perennemente confinati al modello della damsel in distress e poco più, l’inedito contesto d’epoca era in grado di ampliare notevolmente le coordinate storico-geografiche delle opere precedenti: al contrario di ogni previsione, “Brave” è un’occasione mancata, uno stracco e trito campionario di elementi stereotipati imbastiti senza gusto della trasgressione né desiderio di restaurazione passatista, un ibrido indolente e pavidamente incerto a cui mancano sia il – pur facile – spirito iconoclasta dell’era post-“Shrek”, sia l’affettuosa rievocazione classicista del più recente corso disneyiano.
Come detto, motore della vicenda è la voglia di ribellione di Merida, giovane erede al trono di un fittizio reame scozzese, la sua lotta individuale contro l’ordine costituito non in nome del Vero Amore come le protagoniste che l’hanno preceduta in decenni di animazione, ma per un’alternativa concreta alla subordinazione patriarcale che la aspetta: il culmine della sua protesta, e il vero punto di non ritorno della storia, avviene nel bel mezzo dell’agone fra i suoi pretendenti, dove Merida, schierandosi apertamente contro sua madre, si presenta a sorpresa per aspirare alla sua stessa mano e, vincendo, annulla di fatto la competizione.
E’ un momento forte, a modo suo iconico, il possibile trampolino di lancio per una eroina finalmente all’altezza dell’ineguagliabile ideale miyazakiano: da questo punto in poi, tuttavia, “Brave” prende tutta un’altra piega e sembrano diventare palesi le conseguenze della traumatica sostituzione della Chapman.
Senza voler svelare troppo, la potenza dello spunto del film viene vanificata da uno sviluppo che procede col pilota automatico, con soluzioni logore che vanno dallo scontro generazionale all’escamotage della teriantropia, e che alla fine si risolvono in un nulla di fatto vagamente reazionario che fa tabula rasa delle sue buone intenzioni: tutti i punti di forza messi sul piatto nella prima mezz’ora, dagli usuali comprimari gustosi al ruolo primario e fortemente suggestivo dell’ambiente, spariscono e fanno spazio ad una comicità slapstick che lascia interdetti, ad un vuoto sostanziale di idee che rende impossibile una partecipazione sincera ed empatica agli eventi, come invece accadeva in passato, che non trascina, che non commuove e che, ancora peggio, non coinvolge.
Presentata come una nuova Nausicaä della Valle del vento, Merida si colloca al contrario fra le protagoniste meno memorabili dell’animazione contemporanea e finisce per tradire in pieno l’appellativo che la presenta e che la caratterizza nel titolo stesso del film – “coraggiosa”, a cui viene aggiunto un discutibile “ribelle” nell’ adattamento italiano: non c’è passione in un banale contrasto fra madre e figlia o a un orso come villain quando per anni ci si è abituati non tanto a conflitti e antagonisti tradizionali, ma a concetti atavici e universali come la paura dell’abbandono, il trauma della crescita e il vuoto della morte.
Serve a poco riscrivere e rimodernare completamente il sistema d’animazione dopo 25 anni di carriera e puntare tutto sul progresso tecnologico quando il problema evidente, alla luce degli ultimi 12 mesi, è solo e soltanto uno, e cioè che alla Pixar manca quel ricambio generazionale necessario e riparatorio in grado di fare fronte alla diaspora dei decani: Brad Bird e Andrew Stanton hanno tentato l’esperimento live-action proprio quest’anno, il primo con “Mission Impossible: Ghost Protocol”, il secondo con “John Carter”, e non sono previste loro collaborazioni con la Pixar da qui al 2015.
In breve, se “Cars 2” sembrava il compito mal svolto di un alunno che non ha potuto prepararsi adeguatamente per questioni di forza maggiore, “Brave” è invece la sufficienza stiracchiata del primo della classe che si è stufato di tenere alta la media, un secondo, paventato episodio interlocutorio in attesa degli auspicati nuovi capolavori.
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