Agosto è finito, il tradizionale spartiacque meteorologico che accoglie la Mostra in una prefigurazione autunnale a partire dal secondo terzo della sua durata non tarda ad arrivare, e soprattutto si rompono gli indugi sullo svolgimento della manifestazione, ormai entrata nel vivo: le sezioni sono state ad oggi tutte regolarmente inaugurate, al brulicare regolare e compulsivo degli addetti ai lavori di sala in sala si è contrapposto il sedentario attecchire dello spettatore comune nelle zone del tappeto rosso e dell’Hotel Excelsior, a partire da oggi – con la sola eccezione del 6 settembre – i film del Concorso proiettati nell’arco della giornata saranno almeno due fino alla fine della rassegna.
Se Paradies: Glaube ha idealmente e nitidamente portato a conclusione la fase iniziale di Venezia69, è l’annunciato film-sorpresa di Paul Thomas Anderson, The Master, a catapultare la selezione ufficiale nel circuito maggiore e a far evolvere il discorso: non si tratta del ghignante “pamphlet anti-Scientology” come le prospettive di molta stampa e del pubblico più distratto lascerebbero supporre, ma un autentico saggio di antropologia e il nuovo, ambizioso e coraggioso giro di chiglia di un autore stanco di lasciarsi etichettare come l’emulo di punta del Maestro di turno (con Boogie Nights si tirò in ballo Scorsese, con Magnolia fu immediato l’accostamento ad Altman, mentre Il Petroliere fece immediatamente pensare nientemeno che a Kubrick), un titolo di manifesta imperfezione che, in piena armonia con la nuova fase della carriera andersoniana, partita con l’isterico Ubriaco d’amore, finirà per spiazzare tutti.
E’ stato il figlio, successiva pellicola della giornata, è un appuntamento attesissimo per svariate ragioni: è il primo film italiano in concorso, può essere un candidato ideale alla Coppa Volpi – grazie al fondamentale apporto di Toni Servillo – e soprattutto è il sospirato ritorno in veste di regista, dopo essersi limitato alla direzione della fotografia (per Vincere di Bellocchio, solo per citare il più celebre), da parte di Daniele Ciprì, che negli ultimi due decenni, in compagnia del fedele Franco Maresco, ha plasmato considerevolmente il panorama televisivo e cinematografico nostrano partendo dall’epocale CinicoTv e dalla vocazione post-pasoliniana dei suoi successivi lungometraggi, a cominciare da Lo zio di Brooklyn: qui il regista, che rappresentava la metà formale e artistica del duo, opera per la prima volta in solitudine, limita fortemente l’impiego in veste di comprimari dei suoi freak di fiducia e rinuncia al suo assai caratteristico e torbidissimo bianco e nero per dare forma ad un esagitato incubo grottesco di ordinaria miseria umana, non lontano dalle suggestioni del Garrone di Reality, dove un cospicuo risarcimento per le vittime di mafia versato, dopo alcune disavventure, ad una povera famiglia siciliana scoperchierà il vaso di Pandora delle loro reciproche tensioni e idiosincrasie, fino ad un finale che rimescola intensamente le carte in tavola.
Ci si sposta in Palabiennale sull’onda della particolare della progressiva visibilità ottenuta da Wadjda, che compete, un po’ generosamente, nella sezione Orizzonti e che, come l’altrettanto terzomondista Water, visto l’altroieri, trova parte consistente della sua ragion d’essere nel suo bagaglio di buone intenzioni: il film è infatti non solo uno dei pochi, significativi momenti della già limitata produzione proveniente dall’Arabia Saudita e perdipiù con una donna a dirigere il tutto. La vicenda è presto riassunta: la piccola Wadjda vuole una bicicletta, ed è disposta a qualsiasi genere di privazione per ottenerla, anche se il suo è uno dei Paesi più restrittivi e severi in quanto a tutela della popolazione femminile, e quindi, trasformandosi gradualmente in una versione edulcorata della Marjane di Persepolis, decide di ricorrere agli escamotage più ingegnosi per soddisfare il suo desiderio, avversata tanto da sua madre quanto dalle circostanze scolastiche e civili.
Rimanendo sempre nella sala di Via Sandro Gallo, si recupera uno degli eventi più mainstream dell’edizione di quest’anno, ossia il documentario che Spike Lee, il più rappresentativo esponente contemporaneo della cinematografia afroamericana, ha voluto dedicare alla celebrazione di un album del più fortunato e celebre cantante e performer black del secolo scorso: Bad 25, quindi, analizza traccia per traccia il seguito che Michael Jackson, nel 1987, volle dare all’irreplicabile Thriller, procedendo rigidamente lungo la tracklist e, in modo a tratti agiografico se non addirittura sussiegoso, mettendo in evidenza tutto ciò che l’ex-artista Motown contribuì a fare, musicalmente e umanamente, per tentare di “restare all’altezza” del disco più venduto della storia della musica moderna, coinvolgendo, fra gli altri, un assai divertito Martin Scorsese, che della title-track diresse il celebre video, Siedah Garrett, co-autrice dell’anthem Man in the Mirror, Sheryl Crow, che, in veste di co-esecutrice live di I just can’t stop loving you e di corista, accompagnò Jackson nel tour del 1987/89, oltre a tutti i collaboratori tecnici e i musicisti impiegati da Jackson nella realizzazione e nella registrazione delle canzoni.
Si conclude la giornata con Lemale et Ha’chalal, unica opera prima in Concorso e debutto alla regia dell’israeliana Rama Burshtein: forse per continuare un discorso di continuità con l’ultimo Leone d’Oro della gestione Barbera, Monsoon Wedding, anche qui si parla di matrimonio, nello specifico della fragile situazione in cui sono coinvolti i giovani Yochai e Sherale. Il primo, vedovo di Ester, intende “colmare il vuoto” (traduzione letterale del titolo del film) lasciato dalla morte della moglie, mentre la seconda, che di Ester è la sorella minore, intende, per il bene della famiglia e per garantire al piccolo Mordechai, figlio di Ester, un futuro ben ancorato alle proprie radici ebraiche, “sacrificarsi” e darsi in moglie ad un tutt’altro che concorde Yochai, che è invece in procinto di sposare una forestiera. Le analogie con la “commedia nuziale” di Mira Nair sembrano quasi di buon auspicio ad un piccolo, semplice film che però, a differenza del 2001, anno in cui la regista indiana non incontrò una concorrenza particolarmente agguerrita, dovrà vedersela con i favoritissimi mastodonti di questi giorni, a partire da un ritrovato Terrence Malick, che per la prima volta in tutta la sua carriera si riaffaccia nelle sale con un intervallo brevissimo rispetto alle lunghe transizioni a cui ci aveva abituati.
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