Rispettando le nostre più rosee previsioni, Apres Mai ha conquistato il rispetto e la considerazione di tutti laddove Anderson e Malick avevano fallito, garantendosi il plauso generale della popolazione lidense e conquistandosi il titolo di vincitore ideale della rassegna, solo di rado concretizzatosi sotto forma di statuetta leonina, preferibilmente aurea.
Secondo un ordine che si fa a fatica a non considerare un calcolo preciso e congruo, oggi si risponde alla precedente triade di capolavori più o meno accertata con una giornata di relativa distensione e di disimpegno, facendo rappresentare il concorso dal mastodontico ed epidermico affresco storico di Valeria Sarmiento, vedova e collaboratrice del recentemente scomparso Raul Ruiz: Linhas de Wellington, infatti, se ne si accetta la durata considerevole (150′), è in realtà un prodotto di intrattenimento da grandi platee, senza che ciò equivalga ad adagiarsi sui canoni medio-bassi del kolossal in costume.

Ambizioso e fluviale nel suo procedere da grande romanzo ottocentesco, il film della Sarmiento è anche l’occasione per imbastire una sequela di aneddoti di largo o corto respiro sul fronte portoghese delle guerre napoleoniche, concedendosi il lusso di brevi partecipazioni speciali che vanno da Michel Piccoli a Isabelle Huppert, da Marisa Paredes a Catherine Deneuve, culminando con un divertito John Malkovich nel ruolo del generale inglese che impartì una serie di sonore sconfitte alle armate di Bonaparte.

Dopo una pellicola di tali proporzioni, che probabilmente non mancherà di impressionare favorevolmente (ricordate L’ultimo dei mohicani?) un Presidente della Giuria che fino ad ora ha avuto a che fare con opere lontane anni luce dalla sua personale concezione del mezzo cinematografico, è la volta di un piccolissimo, fragile e agguerrito film italiano, L’intervallo, prima opera di fiction del documentarista ischitano Leonardo di Costanzo, che partecipa nella sezione Orizzonti: girato in relativa unità di tempo e di spazio nell’inquietante “sgarrupatezza” dell’abbandonato ex-ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli, si tratta di 86′ di autentica tensione con due giovanissimi protagonisti che si conoscono, si rincorrono, si comprendono, si confortano e, forse, arrivano ad amarsi nel contesto vagamente gotico di un isolamento forzato, nel quale Salvatore, che gestisce un carretto di limonate, deve sorvegliare la quasi coetanea Veronica prima dell’arrivo, con misteriosi intenti punitivi, di un piccolo boss locale.

Nell’arco di un pomeriggio (fotografato e ripreso da un magnifico Luca Bigazzi), i due si aggirano per gli enormi spazi interni ed esterni dell’edificio scoprendo le zone nascoste ed oscure sia di esso, sia della propria personalità, mentre su Veronica incombe una condanna che solo alla fine assumerà i connotati metaforici di una sopraffazione camorristica schiacciante.

Menatek Ha-Maim, sempre in Orizzonti e tradotto con l’assai poco invitante variante italiana L’uomo che stacca l’acqua, è l’ulteriore componente dell’agguerrita compagine israeliana di quest’anno, è un’altro risultato in punta di piedi, forte dei suoi compressissimi, laconici 76′ di durata e di uno stile rigorosissimo dove la metafora si fa forte ma mai annichilente e dove basta la potenza di un silenzioso primo piano per riassumere la tensione nascosta nella minuscola vicenda di un uomo di mezza età che, per scongiurare il pericolo della disoccupazione, accetta l’incarico di “staccare” il rifornimento idrico di condomini insolventi, un compito ingrato e capace di attirare su di se il disprezzo degli incolpevoli “evasori” e le loro ingiurie. Gabi, il protagonista, però, non è il mefistofelico riscossore di Pietà, e il suo operato è frutto soltanto di una disperata mancanza di alternative, ma ciò non significa che la volontà di redenzione sia totalmente assente. Un altro debutto, per oggi, che quindi si preannuncia importante e decisivo per l’assegnazione dei premi finali.

Ancora in Orizzonti, dopo due esordi, arriva il turco Yesim Ustaoglu, già autore del notevole Viaggio verso il sole, accolto a dir poco trionfalmente dal Festival di Istanbul nel 1999: si ritorna a sfondare le due ore con il dilatato Araf, un’altra storia di giovani senza prospettive dopo la periferia partenopea di Di Costanzo, questa volta ambientata fra le mura di una squallida stazione di servizio in cui il ritmo e le cadenze della vita quotidiana di Zehra e Olgun vengono spappolati dalla monotonia e in cui soltanto l’arrivo improvvido del camionista Mahur, da loro coinvolto in un disperato menage a trois, fornirà un breve, pernicioso sbocco su un percorso di formazione coatto, se non addirittura traumatico, al termine del quale il traguardo della vita adulta saprà offrire ben poche gioie.

Rispettando i toni da giornata di transizione per la selezione ufficiale, la conclusione è affidata al bizzarro Spring Breakers, opera relativamente mainstream per il provocatorio Harmony Korine, autore del cult Gummo, dell’invisibile Trash Humpers (girato e montato nel 2009 nientemeno che in formato VHS) e di altri progetti disinvoltamente abortiti: con una soluzione non troppo diversa dalle provocazioni ghignanti di Gregg Araki, campione dell’esasperato miscasting di star del circuito televisivo – come dimenticare l’orgia di divetti del mondo adolescenziale Ecstasy generation, “lungo episodio di Beverly Hills 90210 sotto acido” (parole dello stesso Araki) – Korine dirige un quartetto di ragazze discinte alle prese con disavventure improbabili e sconnesse dove l’obiettivo finale è rappresentato dallo svolgimento più insano e scatenato del rito tutto USA delle vacanze di primavera, appuntamento sentitissimo dagli universitari locali e ricco di riti orgiastici a base di alcol e di sesso occasionale.

Se si pensa che il colorito cast comprende modelli innocui e virginali come le disneyiane Selena Gomez e Vanessa Hudgens, oltre alla meno nota Ashley Benson e alla stessa giovanissima moglie del regista, che sostituisce all’ultimo Emma Roberts (figlia di Julia), bisognerà necessariamente informare le frotte di quattordicenni accorsi al Lido che Spring breakers – alla cui proiezione, si spera, non riuscirebbero comunque ad accedere, visto il limite ineludibile della maggior età per l’ingresso in sala – non è esattamente l’evento che si aspettano, ma la nuova, sarcastica operazione di macellazione del pop di un autore genuinamente folle e sconsiderato.

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