I matrimoni combinati nell’era dell’i-Phone. In Fill the Void (Lemale et ha’chalal – Israele, 2012) di Rama Burshtein, presentato al pubblico in anteprima, martedì 11 settembre, all’interno di Da Venezia a Roma, a dire il vero, la modernità entra molto di rado: qualche auto parcheggiata lungo le strade percorse a piedi dai protagonisti, la musica pop proveniente da una rumorosa festa di piazza che giunge attutita nella casa della famiglia al centro della storia – subito qualcuno si premura di chiudere la finestra…

L’ortodossia religiosa intride di sé l’esistenza di un gruppo di abitanti di Tel Aviv, avvolti nei loro riti e nei loro cerimoniali: il film si apre con la celebrazione del Purim, una delle principali festività ebraiche, che si svolge in un’abitazione privata, dove il capofamiglia Aron dispensa calici di vino, perle di saggezza e – soprattutto – qualche banconota ai più bisognosi tra gli amici, i parenti e i vicini che vengono a cercare sostegno presso questa facoltosa famiglia.

Ma il dramma, e il destino, sono alle porte. Esther, la figlia maggiore del vecchio Aron, già convenientemente sposata con il probo Yochai, muore dando alla luce il primogenito. Lo sconforto è devastante, ma il tempo per il dolore è breve, bisogna subito adempiere all’obbligo di ricostituire il nucleo familiare, dando una madre al piccolo Mordechai e una moglie al giovane vedovo.

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E allora ecco che la pur affranta madre escogita la soluzione ideale, funzionale anche al suo egoistico desiderio di avere vicino il bimbo tanto desiderato per la figlia. La giovanissima sorella di Esther, Shila, sarà lo strumento – peraltro non inconsapevole, e alla fine anche consenziente – di questo disegno.

Colpisce questa essenziale ma acuta ricostruzione dell’ambiente degli ultraortodossi ebraici, per vari motivi. Uno è il ruolo che viene rigidamente assegnato a ciascun membro della famiglia, senza che vi sia spazio per i sentimenti individuali, e ciò con l’adesione dei singoli, che si identificano appieno con la funzione che devono svolgere: sposarsi è un compito ben preciso, preordinato alla prosecuzione della stirpe e al mantenimento dell’ordine religioso.

C’è poi la descrizione minuziosa dei rituali, con il loro rivelarsi funzionali all’esigenza di fornire un contesto rassicurante al singolo, che non deve avventurarsi in esperienze emotive che non saprebbe come governare: anche le manifestazioni di dolore e di cordoglio per la perdita dei più cari vengono circoscritte in formule predefinite, dove il richiamo alla superiore volontà divina serve a cauterizzare anche le ferite più profonde.

Infine, c’è l’umanità che resiste al tentativo di ingabbiarla, che pervade di sé persino un ambiente chiuso come quello descritto in “Fill The Void”: personaggi come la zia mutilata e perciò rimasta nubile, la giovane zitella umiliata, il rabbino paziente e comprensivo si insinuano tra i rigidi schemi facendoci capire com’è la vita quotidiana in un universo di integralismo religioso.

In questo quadro, la performance della giovane Hadas Yaron è meritevole della Coppa Volpi come Migliore Attrice di Venezia 69 per la sua capacità di incarnare tutti e tre gli aspetti indicati: un rispetto quasi sacrificale del proprio ruolo sociale, un’adesione rigorosa al simbolismo familistico-religioso ed una prorompente voglia di godere di ciò che la vita ti può offrire, malgrado tutto.

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